Il testo cruciale della conferenza, quello sul nuovo meccanismo finanziario, è stato approvato con una forzatura del protocollo procedurale. Quando è uscita la bozza il gruppo dei paesi meno sviluppati e l’alleanza degli stati insulari avevano abbandonato le stanze dei negoziati. Nella plenaria di sabato notte, la presidenza ha preso la decisione finale senza il consenso delle parti, che sono state fatte intervenire a decisione già presa. Fra i contrari, l’India che si è detta decisamente contraria, la Bolivia completamente contraria, il gruppo dei paesi africani che ha definito il testo una “schifezza totale”, il Canada ha espresso disappunto. Contrari anche Cuba, Nigeria e altri. Queste posizioni sono state registrate, ma la decisione era già stata presa. La presidenza ha fatto il gioco dei paesi occidentali, che hanno negato le proprie responsabilità, pretendendo maggiori ambizioni sulla mitigazione da parte dei paesi del sud del mondo, senza fornirgli però l’adeguato supporto finanziario per passare rapidamente alle fonti rinnovabili, affrontare gli impatti devastanti della crisi climatica e coprire i costi delle perdite e danni. Il testo prevede che i paesi ricchi assumano la guida per mobilitare almeno 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 a favore dell’azione per il clima per i paesi in via di sviluppo, a fronte di necessità stimate nell’ordine di trilioni di dollari annui, nessuna garanzia di investimenti pubblici a fondo perduto (che non indebitino ulteriormente i paesi del sud del mondo), nessun obbligo per i paesi responsabili della crisi climatica. Le risorse potranno provenire da banche di sviluppo e investitori privati. Il fondo “perdite e danni” è stato escluso dal finanziamento. Un atteggiamento deplorevole da parte dei paesi più ricchi che – oltre ad essere responsabili della crisi climatica – continuano tuttora ad espandere le proprie economie fossili. Cina, Singapore e i paesi del Golfo saranno ancora considerati paesi in via di sviluppo ma potranno, anche loro, contribuire volontariamente. C’è un invito ad arrivare a 1300 miliardi di dollari e a triplicare gradualmente i finanziamenti erogati. Ma sono solo auspici, non una decisione vincolante.

Il programma di lavoro sulla giusta transizione si è concluso senza un accordo, le consultazioni proseguiranno nel prossimo giugno a Bonn per preparare una bozza di decisione da presentare alla COP30 che si terrà in Brasile. Un segnale pessimo per il mondo del lavoro e per le comunità che devono affrontare gli effetti della transizione ecologica. Nei testi su mitigazione e global stocktake (GST) non c’è alcun riferimento all’uscita dalle fonti fossili o, meglio, al “transitare via” stabilito nella COP28 di Dubai, per la ferma opposizione dell’Arabia Saudita. È stato approvato l’articolo 6 dell’accordo di Parigi che istituisce un mercato del carbonio a livello globale. L’adattamento risente della mancanza di risorse.

Hanno vinto la miopia e l’arroganza dei più forti, le lobbies del fossile, la finanza privata, le distrazioni basate sui meccanismi di mercato, il modello liberista ed estrattivista che è alla base della crisi planetaria. Il processo di questa COP, la presidenza e l’atteggiamento dei paesi del nord globale hanno inferto un colpo esiziale alla fiducia, alla collaborazione e al percorso negoziale. La COP ha oggettivamente segnato un fallimento generale delle conferenze sul clima, che non sarà facile superare e invertire con la prossima tappa in Brasile. Ma non possiamo arrenderci né rassegnarci. Per questo serve una reazione forte da parte di tutta la società civile, a partire dal movimento sindacale. È inaccettabile che non ci siano i soldi per ripagare il debito climatico dovuto al sud del mondo mentre si spendono trilioni per alimentare guerre, massacri, crimini di guerra e contro l’umanità come quelli che si continuano a consumare in Palestina. Così come non è accettabile che, a fronte di morte e distruzione climatica, non ci sia ancora e la consapevolezza dell’urgenza e una chiara volontà politica di uscire dalle fonti fossili. Mai come in questa COP è stata evidente la questione di fondo: lottare contro la crisi climatica significa lottare per cambiare radicalmente un modello di sviluppo insostenibile, per rimuovere le disuguaglianze, sia fra nord e sud globale che all’interno degli stessi paesi, per contrastare ogni forma di sfruttamento e colonialismo; significa battersi affinché i lavoratori non siano abbandonati nella transizione, e garantire a tutti i popoli il diritto di vivere in pace nelle proprie terre. Non possiamo rassegnarci alla vittoria degli interessi di pochi contro il benessere delle popolazioni e dell’ambiente in cui viviamo. La lotta per il cambiamento passa anche, e soprattutto, dalla giustizia climatica.