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La CGIL – insieme alla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) – ha espresso a tempo debito forti critiche alle nuove regole del Patto di Stabilità e Crescita che – purtroppo – anche il Governo italiano ha avallato in seno al Consiglio europeo.
Da quell'errore, deriva il Piano Strutturale di Bilancio che – per come è stato disegnato – infliggerà al nostro Paese un lungo ciclo di austerità, quantificabile in circa 13 miliardi di tagli per ciascuno dei prossimi 7 anni.
Ma prima di entrare nel merito di quanto previsto nel Piano, è necessaria una premessa che ha a che fare con il metodo seguito dall'Esecutivo nel redigerlo.
Stiamo parlando di un Piano che indica – in maniera vincolante e pressoché irreversibile – la traiettoria delle politiche economiche per un arco temporale che va ben al di là dell'attuale legislatura, condizionando di fatto anche l'indirizzo del prossimo Governo, il quale – se vorrà modificarlo – dovrà avventurarsi in una negoziazione con la Commissione e, soprattutto, ottenere l'approvazione unanime del Consiglio.
Nonostante questo, si è deciso di procedere in maniera autoreferenziale – senza alcun vero coinvolgimento delle Parti sociali e del Paese – limitandosi, anche in questo caso, a una mera comunicazione di orientamenti già assunti.
Venendo al cuore della questione.
Se il Piano Strutturale di Bilancio – come strumento – è figlio della nuova governance economica europea, i suoi contenuti sono figli di una scelta politica molto precisa compiuta da Palazzo Chigi e dal Mef, che avevano davanti a sé un bivio: tagliare la spesa, e quindi colpire Sanità, Istruzione, Previdenza, Contratti collettivi e Investimenti pubblici; oppure andare a prendere le risorse dove sono, azionando la leva redistributiva del fisco su: profitti, extraprofitti, grandi ricchezze, rendite, lotta all'evasione e una vera progressività ed equità fiscale.
Si è scelta – chiaramente – la prima strada.
La strada di un'austerità selettiva, scaricata – come sempre – sui soliti noti.
Lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati – dopo aver subito un brutale impoverimento a causa di un'inflazione da profitti (lasciata sostanzialmente libera di consumarsi a loro danno) –continueranno a essere colpiti anche attraverso gli ulteriori tagli a un welfare sempre meno pubblico e universalistico, in quello che un tempo si definiva “salario indiretto o sociale”.
Per altri, invece, si continua ad escogitare ogni strumento possibile e immaginabile per consentire loro di evitare di pagare il dovuto al fisco.
Emblematico – da questo punto di vista – il paragone tra i 9,3 miliardi di maggior gettito Irpef pagati fin qui da lavoratori e pensionati (e che saranno anche di più a fine anno) e la parabola inaccettabile del concordato preventivo – chiusa con un condono tombale – che rappresenta un vero e proprio insulto ai contribuenti onesti.
Abbiamo chiesto che quelle maggiori entrate – prelevate attraverso il meccanismo del drenaggio fiscale, e che andrebbero restituite – vengano quanto meno destinate a rifinanziare un Servizio Sanitario Nazionale ormai sull'orlo dell'implosione.
Sotto questa prospettiva, anche la stessa decontribuzione – che dovrebbe essere confermata (a meno che si voglia far perdere fino a 100 euro al mese a oltre 14 milioni di lavoratrici e lavoratori) – somiglia più a una "partita di giro” – finanziata in gran parte dalle imposte pagate dai medesimi redditi fissi – piuttosto che a un reale sostegno a lavoratrici e lavoratori.
Del resto, sull'assenza – da parte del Governo – della volontà di affrontare la grande emergenza salariale in corso nel nostro Paese, la dice lunga la decisione, da un lato, di confermare – per il rinnovo contrattuale 2022/2024 del pubblico impiego – uno stanziamento, assolutamente insufficiente, di risorse corrispondenti a solo un terzo dell'inflazione cumulata nel triennio (5,78% di incrementi a fronte del 16,5%); dall’altro, di non intervenire né a sostegno dei rinnovi dei contratti collettivi privati, né a contrasto del lavoro povero e precario.
Nel Piano si parla di rafforzamento della domanda interna, ma nei fatti si decide di fare il contrario.
Nemmeno le riforme e gli investimenti inseriti nel Piano ci convincono. Innanzitutto, esprimiamo grande preoccupazione per i ritardi e per le scelte fatte sul PNRR, che coprirà 2025 e 2026.
Consideriamo poi quanto programmato per gli anni successivi non adeguato alle vere priorità del Paese.
Le priorità sono ben altre: una legge sulla rappresentanza e sul salario minimo per rafforzare la contrattazione collettiva e aumentare i salari; il contrasto alla precarietà e al lavoro nero e sommerso; un piano straordinario di assunzioni in tutti i settori pubblici; investimenti post PNRR per politiche industriali ed energetiche a sostegno della transizione digitale e della riconversione ecologica del nostro sistema produttivo, con l’obiettivo sia di tutelare il lavoro (anche attraverso condizionalità nei confronti delle imprese e nuovi ammortizzatori sociali), sia di creare nuova occupazione stabile.
In generale, quando si affrontano questi temi, si tende a far passare l'idea che si tratti di questioni tecniche, da affrontare sulla base di ricette obbligate.
Non è così: le scelte sono sempre assolutamente politiche.
Nonostante le sue rigidità, anche il Patto di Stabilità riformato prevede – come alternativa alla drastica riduzione della spesa – la possibilità di recuperare nuove entrate per il bilancio dello Stato.
Si è semplicemente deciso di non farlo.
Così come si è deciso – a livello europeo – di chiudere, in una parentesi pandemica, il Next Generation Eu e di tornare ai fasti immaginari della stagione precedente.
Quella stagione di rigore e di austerità in cui, comprimendo investimenti, salari, occupazione e PIL, si è fatto esplodere il rapporto debito/PIL, che può essere ridotto solo agendo sul denominatore della crescita.
Noi, invece, stiamo andando – ancora una volta – nella direzione opposta: assecondando un declino del Paese che si fa finta di non vedere, ma che ci ha già inferto – tra le altre cose – 18 mesi consecutivi di calo della produzione industriale.
Lo ammette lo stesso Governo: sia disegnando una curva discendente del PIL programmatico (dall’ottimistico +1,2% del 2025 allo 0,6 del 2029); sia autocertificando che l’impatto delle sue scelte economiche contribuirà alla crescita della nostra economia per appena 0,3 punti percentuali nel 2025, e addirittura per lo 0,0 nel 2026.
Il che equivale a "confessare" di non avere alcuna politica economica in grado di incidere sulla realtà.
Infine, gli stessi attacchi al Green deal europeo sono del tutto ideologici e controproducenti: perché negano – sostanzialmente – un cambiamento climatico sempre più drammatico e perché rischiano di privarci dell'unico terreno in cui rivendicare debito, strumenti, investimenti e politiche comuni a livello di Unione europea.
Noi crediamo che l'Italia e l'Europa abbiano bisogno d’altro: non di austerità, non di riarmo, non di economia di guerra; ma di un nuovo modello di sviluppo, avanzato e sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale e industriale.
→ Documento integrale predisposto con il contributo di tutte le Aree del Centro Confederale