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Lunedì 4 novembre si è tenuta l’audizione della CGIL, rappresentata dal Segretario Confederale, Christian Ferrari, dal Responsabile dell’Ufficio Economia, Nicolò Giangrande e dal Coordinatore Area Politiche per lo Sviluppo, Massimo Brancato, nell’ambito dell’esame del disegno di legge di bilancio per l'anno 2025 (C. 2112-bis), presso le Commissioni riunite Bilancio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.
Di seguito riportiamo la memoria predisposta per l’occasione con il contributo di tutte le Aree del Centro Confederale.
PREMESSA
Riteniamo opportuno partire da una brevissima descrizione della realtà economica e sociale del nostro Paese, che va guardata in faccia, senza edulcorarla.
Il pil cresce dello “zero virgola”; la produzione industriale cala da 19 mesi consecutivi (da novembre 2022 ad agosto 2024 il fatturato manifatturiero è sceso dell’8%); la domanda interna ristagna mentre l’export, ad agosto, ha perso il 6,7% in valore (il 10,7% in volume) sull’anno precedente; precarietà, lavoro nero e sommerso colpiscono 6 milioni di lavoratori; l’evasione fiscale e contributiva è a quota 82,4 miliardi; lavoratori e pensionati pagheranno, nell’anno in corso, oltre 17 miliardi di Irpef in più; l’inflazione cumulata nel triennio 2021 – 2023 è stata del 17,3%.
La manovra di bilancio si inserisce in questo quadro, e non in quello decantato dal Governo, che continua a celebrare record immaginari che prescindono totalmente dalle condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone.
E alla domanda su quanto i suoi contenuti possano incidere, migliorando la situazione, la risposta arriva dallo stesso Esecutivo, che certifica – per i prossimi anni – un impatto sul Pil della sua politica economica tra 0,3 e 0,0 punti percentuali. Il che equivale ad ammettere di non essere in grado di incidere su quella realtà che abbiamo appena descritto.
Ma il problema è un altro, i provvedimenti assunti, se non saranno cambiati in maniera significativa dal Parlamento, peggioreranno ulteriormente le cose.
E ci riferiamo, innanzitutto, alla vera e propria fiera di tagli al welfare universalistico e ai servizi pubblici che si è scelto di portare avanti per rispettare i parametri del nuovo Patto di Stabilità, cui anche il Governo italiano ha dato via libera nel Consiglio europeo, che condannerà il nostro Paese a 7 anni di austerità.
È chiarissimo chi pagherà il prezzo più salato della riduzione drastica della spesa pubblica: saranno lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati i quali – dopo aver subito una brutale perdita del potere d’acquisto a causa di una crescita dei profitti senza precedenti - verranno colpiti anche nel c.d. “salario sociale o indiretto”.
Eppure, contrariamente a quanto sostengono il Mef e Palazzo Chigi, che fanno passare per scelte tecniche decisioni assolutamente politiche, c’era un’alternativa a ridurre ulteriormente i dipendenti pubblici, a tagliare ancora una volta le risorse per Istruzione, Ricerca, Regioni ed Enti locali, a programmare una riduzione delle risorse per il Servizio sanitario nazionale tale da raggiungere – nel 2027 – il livello più basso mai registrato in rapporto al PIL, pari al 5,91%.
E l’alternativa era, ed è, recuperare risorse da extraprofitti e profitti (decine e decine di miliardi di euro), rendite e grandi patrimoni, evasione fiscale e contributiva.
Si è invece deciso di non andare a prendere i soldi dove sono, preferendo fare addirittura il contrario: ridurre la progressività fiscale (con la conferma della flat tax, e la sua eventuale estensione) e ricorrere a condoni, concordati e ogni altro strumento possibile e immaginabile pur di non contrastare un’economia sommersa in continua espansione. Restando fedeli al solito mantra del “meno tasse per tutti”.
Per tutti, tranne che per chi vive di salario o di pensione, che – pagando, attraverso il meccanismo del drenaggio fiscale, il maggior gettito Irpef cui abbiamo già fatto cenno – ha finanziato anche il taglio del cuneo fiscale, in una sorta di “grande partita di giro” a saldo zero.
Su questo punto occorre una precisazione. Siamo al terzo anno di fila in cui si tenta di vendere come nuovo sostegno ai lavoratori ciò che nuovo non è affatto, è semplicemente la conferma della vecchia decontribuzione, che è stata fiscalizzata. La stragrande maggioranza del mondo del lavoro non vedrà un solo euro in più in busta paga, anzi quasi tutti perderanno qualcosa.
Non è certamente in questo modo che si risolverà una questione salariale che, in Italia, è ormai grande come una casa.
E che non ci sia alcuna intenzione di affrontarla lo conferma lo stanziamento, per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego 2022/2024, di risorse sufficienti a coprire appena 1/3 di quanto perso con l’inflazione, dando così un pessimo segnale anche ai settori privati.
A tutto questo va aggiunto il capitolo previdenziale. È scomparso dall’orizzonte qualunque tentativo, non tanto di superare ma perfino di mitigare la Legge Monti/Fornero. Dopo le ulteriori restrizioni per Opzione Donna, Ape sociale e Quota 103, un minimo di flessibilità in uscita sarà garantito ad appena lo 0,011% dei lavoratori, per tutti gli altri torna pienamente in vigore la legge che in campagna elettorale si era solennemente promesso di abolire. L’obiettivo è stato completamente ribaltato, puntando ad allungare – per ora in via volontaria – la permanenza al lavoro sino a 70 anni e oltre.
Ultima conseguenza della linea di politica economica assunta dal Governo è privare il Paese, attraverso il taglio degli investimenti pubblici (a cominciare dalle risorse destinate al settore decisivo dell’automotive, che rischia di implodere), della stessa possibilità di mettere in campo politiche industriali in grado di affrontare la transizione digitale, ambientale ed energetica, invertendo un declino produttivo sempre più evidente.
Se inoltre consideriamo i pesanti ritardi nell’attuazione del PNRR e l’assenza di qualunque strategia per il Mezzogiorno, troviamo piena spiegazione della crescita anemica in corso, che potremmo persino rimpiangere nei prossimi anni.
L’unico settore che – non solo non subisce alcuna austerità – ma che vede un incremento delle risorse senza precedenti, è la spesa militare: con circa 35 miliardi di euro da qui al 2039, tra il ministero della Difesa e il MIMIT.
Una scelta che ci vede assolutamente contrari, sia perché preannuncia la conversione della nostra economia in un’economia di guerra, che non può portare nulla di buono, sia perché consideriamo inaccettabile che si rilanci con i soldi pubblici la corsa al riarmo, mentre si tagliano i salari, il Servizio sanitario nazionale rischia di collassare e il welfare diventa sempre meno pubblico e universalistico.
Non serve altro per motivare la nostra mobilitazione, che culminerà nello sciopero generale del prossimo 29 novembre.
A meno che arrivino risposte, da parte del Sistema delle imprese e del Governo, alle nostre rivendicazioni: rinnovo dei Ccnl pubblici e privati per aumentare il potere d’acquisto; finanziamento straordinario per sanità pubblica, servizi sociali, non autosufficienza, istruzione e ricerca; piena rivalutazione delle pensioni, con rafforzamento ed estensione della quattordicesima; riforma delle pensioni che superi la Legge Monti – Fornero; politiche industriali per i settori manifatturieri e per i servizi con gli investimenti necessari per difendere l’occupazione – anche con il blocco dei licenziamenti –, creare nuovo lavoro e costruire un modello di sviluppo sostenibile; tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e contrasto alla precarietà, cambiando la legislazione in materia; ritiro del disegno di legge sulla sicurezza e rispetto delle libertà costituzionali.
Le risorse ci sono, e vanno recuperate innanzitutto attraverso una riforma fiscale all’insegna della progressività e della lotta all’evasione. Chi ha di più deve contribuire di più: non ci sono alternative se vogliamo tornare a crescere e redistribuire con equità la ricchezza prodotta.
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