Con la presente nota commentiamo le principali novità intervenute in sede di approvazione della Legge di Bilancio 2025. Le modifiche apportate non cambiano le valutazioni fatte dalla CGIL in occasione della presentazione della manovra, contenute nella Memoria depositata in Parlamento il 4 novembre 2024.

PREMESSA
Con l’approvazione definitiva della manovra di bilancio da parte del Senato della Repubblica, il giudizio sulle scelte di politica economica del Governo per il 2025 può essere compiuto. E per la Cgil è un giudizio gravemente negativo. Innanzitutto, perché non si intravede un solo provvedimento in grado di invertire il declino economico del Paese e la crescita anemica del Pil che, secondo le ultime stime dell’Istat, aumenterà – nel 2024 – della metà rispetto a quanto previsto nel Piano strutturale di bilancio, e di 0,4 punti percentuali in meno nel 2025.
Anzi, i tagli lineari alla spesa pubblica e agli investimenti peggioreranno la situazione, comprimendo ancor di più la domanda interna e impedendo di mettere in campo una politica industriale all’altezza della sfida cruciale che abbiamo di fronte: la transizione digitale, energetica ed ecologica del nostro sistema produttivo.
Rispetto al testo del disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri, sono state introdotte, durante l’iter parlamentare, poche novità che non hanno mutato impianto e sostanza della legge. Alcune lo hanno addirittura peggiorato, a partire da due interventi che vale la pena sottolineare.
L’ennesimo "saccheggio" alle risorse per lo sviluppo e la coesione, 3,88 miliardi di euro, per finanziare il Ponte sullo Stretto, che si aggiungono alle altre ingentissime risorse sottratte alle politiche per il Sud. Il fondo FSC, destinato a ridurre i divari territoriali e rilanciare il Mezzogiorno, viene ormai utilizzato da Palazzo Chigi come un bancomat per distribuire mance agli alleati, così da garantirsi la tenuta dei numeri in Parlamento.
La diminuzione dell’aliquota IRES che - oltretutto - riguarderà le poche imprese non in difficoltà. Si tratta dunque di una scelta di poco momento, ma comunque rivelatrice dell’approccio del Governo: mentre lavoratori dipendenti e pensionati hanno pagato, a causa del drenaggio fiscale, un maggior gettito Irpef di ben 17 miliardi nel 2024, alle imprese che hanno aumentato a dismisura i profitti vengono anche questa volta abbassate le imposte.
Evidentemente, dopo i 55,2 miliardi di incentivi e benefici fiscali destinati al sistema imprenditoriale nel solo 2023 (dati Istat), non si è ancora compreso che proseguire su questa strada non determina alcun ritorno significativo in termini di investimenti e occupazione di qualità.

Più che continuare a rivendicare risorse pubbliche a spese dei contribuenti, il sistema delle imprese farebbe bene a utilizzare gli enormi profitti ed extra profitti realizzati in questi anni per aumentare gli investimenti e rinnovare i contratti.
Se ciò non accadrà, e se l’Esecutivo proseguirà – contro ogni evidenza – a rinunciare a una vera strategia di politiche industriali per difendere e rilanciare occupazione e capacità produttiva, le conseguenze sono facilmente prevedibili.
Si moltiplicheranno le crisi aziendali e i livelli occupazionali – sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo – ne risentiranno in maniera significativa.
Le nuove generazioni, che soffrono sulla loro pelle una precarietà sul lavoro che il Governo aggrava anziché risolvere, continueranno a lasciare il nostro Paese per cercare opportunità di realizzazione all’estero.
Lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, che hanno sopportato un brutale impoverimento causato da un’alta inflazione cumulata cui non è stato posto alcun rimedio, subiranno anche gli effetti dell’indebolimento di un welfare sempre meno pubblico e meno universalistico.
Neppure in questa legislatura ci sarà alcuna modifica della Legge Monti – Fornero, che intanto sono riusciti a peggiorare, cancellando di fatto anche le poche e insufficienti forme di flessibilità in uscita che erano in vigore. Stanno perseguendo l’obbiettivo opposto rispetto a quanto promesso in campagna elettorale, allungando – al momento per via volontaria – l’età pensionabile a settant’anni e oltre.
I soli a guadagnarci saranno: chi sta accumulando profitti, grandi patrimoni e rendite; chi opera nel settore militare (l’unico capitolo di spesa che crescerà, da qui al 2039, di ben 35 miliardi, circa 3 miliardi in media all’anno) e gli evasori, per i quali viene escogitato ogni strumento possibile e immaginabile per consentirgli di non pagare il dovuto al fisco.
Con scarso successo, peraltro, visto che perfino il concordato preventivo, nonostante la riapertura dei termini, ha portato nelle casse dello Stato cifre di gran lunga inferiori alle attese. La ragione per cui questo accade è piuttosto semplice: hanno aderito solo quanti hanno assoluta certezza che nel prossimo biennio incasseranno cifre molto superiori a quelle su cui dovranno pagare la bassissima imposta prevista da questa misura. Tutti gli altri preferiscono aspettare, avendo la matematica certezza che nuove sanatorie puntualmente arriveranno e che, nel frattempo, nessuno effettuerà controlli. In questo modo si incassa oggi molto meno di quanto si incasserebbe domani, e intanto si tagliano oltre 14 miliardi di euro nel triennio 2025 – 2027 ai Ministeri, all’Istruzione, alla Ricerca, a Regioni ed Enti locali, e si definanzia pesantemente il Servizio sanitario nazionale.
A pagare il conto, sarà - anche in questo caso - chi vive di reddito fisso, che dovrà garantirsi con i propri soldi i servizi che verranno meno.
In spesa sanitaria privata i cittadini hanno pagato, nel 2023, 46 miliardi di euro. Chi può permetterselo, chi non ne ha la possibilità rinuncia addirittura a curarsi.
Tutto questo lo abbiamo denunciato con lo sciopero generale dello scorso 29 novembre. E non abbiamo alcuna intenzione di fermarci.

Continueremo a batterci per ottenere risposte per le persone che rappresentiamo e per cambiare le politiche inique e fallimentari dell’Esecutivo.
Il Paese descritto dalla presidente del Consiglio esiste solo nella sua immaginazione. La realtà è tutt’altra (l’economia è in evidente crisi, la produzione industriale in calo da 21 mesi consecutivi, la cassa integrazione in crescita), e presto presenterà il conto.

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