PHOTO
Inflazione e salari: la situazione attuale
Dagli ultimi dati dell’ISTAT sui prezzi al consumo (agosto 2023) si osserva che l’inflazione, seppur in fase di rallentamento, è ancora a livelli tra i più alti in Europa (+5,4% su base annua), mentre la crescita dei prezzi del “carrello della spesa” – cioè dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona – permane ancora elevata (+9,4%), così come i costi per mutui, abitazione, utenze e combustibili, che pesano in maniera rilevante soprattutto su persone e famiglie con i redditi più bassi.
L’aumento dei prezzi, infatti, non ha un impatto uniforme sulla popolazione: nel secondo trimestre 2023 – a causa della differente composizione dei consumi e della diversa dinamica dei redditi familiari – l’inflazione continua ad avere un maggior impatto sulle famiglie con minor capacità di spesa (+9,4%) rispetto a quelle con un livello di spesa più elevato (+7,1%), contribuendo in questo modo anche ad aumentare i divari territoriali e le diseguaglianze sociali esistenti.
Da gennaio del 2021 ad agosto del 2023 l’inflazione cumulata – calcolata con l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI) dell’ISTAT – è pari al +15,7%.
Le vendite al dettaglio registrano a luglio 2023, rispetto al mese precedente, un aumento in valore (+0,4%) e una riduzione in volume (-0,2%). Rispetto a luglio dell’anno scorso si continua a registrare un aumento delle vendite in valore (+2,7%) e una diminuzione di quelle in volume (-4,5%), soprattutto nel comparto
alimentare. Inoltre, il recente aumento del prezzo del carburante può generare un nuovo rialzo complessivo del carovita. Oltre ai consumi, nel secondo trimestre 2023 sono in calo anche gli investimenti (-1,8%).
Nel primo semestre di quest’anno, l’ISTAT registra un divario di oltre 6 punti percentuali tra la dinamica dell’IPCA e quella delle retribuzioni. Tale differenza era pari a 7,6 punti percentuali nel 2022 e si è ridotta anche grazie ai rinnovi dei CCNL nel frattempo intervenuti.
Nel 2° trimestre 2023, i CCNL in attesa di rinnovo riguardano oltre la metà dei dipendenti (circa 6,7 milioni), che rappresentano il 54,8% del monte retributivo complessivo: si tratta di un’ingente massa salariale che non è stata ancora adeguata all’inflazione, particolarmente alta dal 2021 ad oggi, con ripercussioni sul potere d’acquisto dei lavoratori e anche sul salario medio complessivo che, come dimostrano i dati dell’OCSE, in Italia si attesta a livelli nettamente inferiori rispetto ai salari medi delle due principali economie dell’Eurozona (Germania e Francia).
Inoltre, i dati AMECO della Commissione Europea evidenziano una diminuzione della quota salari sul PIL in Italia (nel 2020 era il 53,4%, per il 2023 si stima al 51,3%, cioè -2,1 punti percentuali), mentre i dati ISTAT segnalano una crescita della quota di profitto delle società non finanziarie, calcolata come rapporto
percentuale tra il risultato lordo di gestione e il valore aggiunto (dal 42,0% del 2020 al 43,1% del 2022 cioè +1,1 p.p.).
Tutti questi dati dimostrano come la causa dell’alta inflazione in Italia non sia un aumento della domanda, né tantomeno la crescita dei salari, bensì l’aumento dei profitti delle imprese.
Le proposte della CGIL per affrontare l’inflazione
Le proposte del Governo, anticipate dagli organi di stampa e confermate in sede di incontro, sembrano poggiarsi soprattutto sugli accordi con i produttori e i distributori, come il “paniere tricolore” e il “trimestre anti inflazione”: si tratta di protocolli generici, non vincolanti e inadeguati ad affrontare le cause reali
dell’inflazione.
Nessun intervento sul lato dell’offerta, sulle filiere e sul monitoraggio dei nodi in cui si potrebbero riscontrare rialzi immotivati dei prezzi, e – soprattutto – nessuna spinta al rinnovo dei CCNL, a partire dal triennio 2022/2024 per i lavoratori pubblici, che dovrebbe invece essere la via maestra, se non per arrestare la corsa dei prezzi, quantomeno per redistribuire il peso dell’inflazione che, ad oggi, grava esclusivamente sui redditi fissi.
Ricordiamo che l’ultima comunicazione ISTAT prevede che l’Indice IPCA al netto degli energetici importati(IPCA-NEI), cumulato nel triennio 2022-2024, sarà pari al 16,9%.
Per quanto riguarda i pensionati la soluzione è la perequazione per tutte le pensioni attualmente in pagamento dopo anni di tagli, compreso l’ultimo, che hanno fortemente ridotto il loro potere di acquisto.
Dal lato degli interventi che necessitano di risorse pubbliche, essi non possono limitarsi ad 80 euro di buoni carburante erogati ai soli destinatari della carta “Dedicata a te” (a maggior ragione se una tantum), alla proroga del regime di maggior tutela luce e gas, al credito d’imposta per gli autotrasportatori, e alla proroga di alcune misure vigenti.
Tutto ciò avrebbe effetti molto limitati per la grande parte delle famiglie di lavoratori e pensionati.
Ricordiamo, inoltre, che nel 2022 – con i quattro decreti denominati “Aiuti” – erano stati previsti, tra gli altri:
• indennità una tantum complessiva di 350 euro ad un’ampia fascia di lavoratori e pensionati;
• bonus sociale energia per le famiglie in difficoltà;
• contributo per il trasporto pubblico;
• rifinanziamento del fondo affitti;
• azzeramento oneri di sistema per le famiglie sui beni energetici e riduzione dell’IVA;
• taglio delle accise sui carburanti.
Tutte misure che – nel corso del 2023 (in particolare a partire dal mese di aprile) – sono state progressivamente depotenziate o lasciate decadere.
In questa fase crediamo che – accanto alla indispensabile leva del rinnovo dei contratti collettivi nazionali pubblici e privati, che rappresenta lo strumento principale della politica dei redditi – debbano essere messe in campo ulteriori misure quali:
• concentrare tutte le risorse disponibili su forme di incentivo fiscale agli incrementi salariali nazionali (CCNL), evitando di disperderle in provvedimenti di detassazione parziali, limitati e non universali;
• conferma e miglioramento della decontribuzione in scadenza a fine anno, con estensione della classe di reddito dei destinatari attraverso una fascia di décalage che eviti brusche riduzioni di salario netto per redditi di poco superiori alla soglia dei 35.000 euro;
• indicizzazione strutturale all’inflazione delle detrazioni per i redditi fissi (lavoro dipendente e pensione), come antidoto permanente ad una parte del fiscal drag;
• estensione e rivalutazione della quattordicesima mensilità per i pensionati;
• rifinanziamento bonus trasporto pubblico locale;
• rifinanziamento del Fondo di sostegno per l’affitto e del Fondo per la morosità incolpevole per contribuire ad abbassare l’incidenza dei canoni sui redditi delle famiglie in difficoltà, per un valore di almeno 900 milioni di euro, tenuto conto che l’ultima quota di stanziamento (2022) ha coperto solo il 40% del fabbisogno nazionale;
• intervenire sul regime fiscale delle locazioni per incentivare al massimo il canone concordato – ad esempio, applicando la cedolare secca al 10% a tutti i comuni e non solo a quelli a “tensione abitativa” – anche in relazione alla necessità di favorire le locazioni di lunga durata e quelle transitorie per studenti che, in molte città, sono spiazzate dal fenomeno crescente degli “affitti brevi”;
• incrementare l’offerta di edilizia residenziale pubblica, attraverso un programma pluriennale, con finanziamenti adeguati, al fine di ampliare il patrimonio ERP;
• realizzare residenze universitarie pubbliche e aumentare il “Fondo per gli Studenti fuori sede” che, ad oggi, dispone di soli 4 milioni di euro per il 2023.
Date le premesse sull’origine e sulle cause dell’attuale fiammata inflattiva, il finanziamento di questi provvedimenti dovrebbe essere innanzitutto posto a carico di una imposta da applicare alle aziende di tutti quei settori che nei periodi di crisi pandemica, energetica e inflattiva hanno ottenuto extra-profitti non derivanti da investimenti o innovazioni.
Tali extra-profitti – spesso dovuti a posizioni di rendita, oligopolio/monopolio o a speculazione – sono stati in massima parte realizzati proprio a spese di quanti oggi maggiormente soffrono dell’incremento dei prezzi.
Anche al fine di individuare i settori da tassare, proponiamo di istituire una commissione indipendente, con il coinvolgimento delle Parti sociali, per l’analisi e il monitoraggio della dinamica dei prezzi e le conseguenti valutazioni su modalità, tempi e atteggiamenti speculativi.
Infine – per aggredire e ridurre strutturalmente l’inflazione – sono necessari scelte e provvedimenti sul versante delle politiche industriali, dei nodi delle filiere e dei costi dell’energia. In questo senso le linee di investimento del PNRR sono un’occasione che deve essere colta, anche per gestire le tante crisi aziendali che coinvolgono migliaia di lavoratrici e lavoratori.
Serve programmare politiche industriali che favoriscano gli investimenti nei settori innovativi e strategici, l’aggregazione con il conseguente abbattimento dei costi fissi e un sistema di infrastrutture materiali ed immateriali in grado di ridurre stabilmente i costi.
Sulle filiere è necessario un intervento, anche in materia di concorrenza, che rimuova le rendite di posizione ed i “colli di bottiglia” che concorrono ad incrementare ingiustificatamente i prezzi.
Per quanto invece riguarda l’energia, la via è già tracciata, ed è l’obiettivo della transizione green, in particolare gli investimenti per elevare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili che progressivamente svincolino il nostro paese dalla dipendenza dalle fonti fossili e dalle oscillazioni dei prezzi
delle stesse.
→ Scarica la nota