L’Italia sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia, passata e recente. La pandemia prima, i drammatici conflitti internazionali in corso e la conseguente crisi energetica stanno indebolendo un Paese già in grande difficoltà.

Da lungo tempo produttività e investimenti ristagnano, le infrastrutture sono insufficienti e quelle che ci sono si sbriciolano, molti settori produttivi non sono in grado di collocarsi in una dimensione internazionale, è assente una strategia organica e di lungo respiro, la disoccupazione rimane alta, il lavoro che si crea è per la gran parte precario e di scarsa qualità.

Le scelte compiute dal governo in carica non solo non invertono questa tendenza ma la aggravano.

Nella legge di bilancio per il 2024 non c'è alcuna svolta su politiche industriali e investimenti in grado di creare lavoro e affrontare le tante crisi aziendali aperte. Ci si continua ad affidare al mercato attraverso incentivi automatici e generalizzati al sistema delle imprese, che non incidono sui meccanismi di produttività, sulla dimensione aziendale e sulla distribuzione del reddito.

Vengono tagliati gli investimenti pubblici, aumentano i ritardi e le incognite sull'attuazione del PNRR, e si rilanciano persino le privatizzazioni, ossia la svendita a fondi di investimento speculativi di quote delle partecipate pubbliche: una scelta insensata sul piano economico, industriale e della stessa finanza pubblica.

Le affermazioni del governo secondo cui – in uno scenario particolarmente complicato e con risorse scarse – si sarebbe scelto di sostenere le categorie più deboli con una particolare attenzione al lavoro sono prive di fondamento. In realtà, con questa politica economica non si dà risposta all'emergenza salariale, non si implementano politiche industriali e politiche pubbliche su sanità e scuola. E questo innanzitutto perché non si vogliono recuperare risorse là dove sono: grandi patrimoni, rendite finanziarie e immobiliari, extraprofitti di tutti i settori, evasione fiscale e contributiva.

Oggi, invece, una politica economica diversa – fondata sulla leva redistributiva del fisco, sulla contrattazione e sul rilancio degli investimenti – è più che mai necessaria a fronte dei grandi problemi che affliggono l’Italia. Le grandi transizioni – ambientali e tecnologiche – richiedono un cambiamento profondo degli indirizzi di politica economica e sociale. Un cambiamento urgente e non più rinviabile. La crisi climatica, infatti, si sta progressivamente aggravando e l'assenza di una strategia industriale sulle tecnologie digitali rischia di porre il Paese ai margini dell'innovazione tecnologica.

• La crisi climatica

Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato. Un recentissimo annuncio dell'Organizzazione Mondiale di Meteorologia ha evidenziato come l'Europa e il Mediterraneo abbiano subito, dall'inizio dell'era industriale, un gradiente di aumento della temperatura quasi doppio rispetto alla media del resto del pianeta. C'è una correlazione strettissima tra cambiamento climatico, riscaldamento del pianeta e utilizzo delle fonti fossili. Questo è il nodo da affrontare. Alcuni dati parlano chiaro: il rapporto più recente dell’IPCC (il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), pubblicato nel marzo del 2023, avverte che il riscaldamento globale supererà il limite di 1,5 gradi, rispetto ai livelli preindustriali, entro il 2040 e lancia l'allarme sull’imminente chiusura dell’ultima finestra di opportunità per garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti. Proseguendo su questa strada il riscaldamento globale arriverà nel 2100 a raggiungere i 3,2 gradi centigradi.

Se non si cambia, quindi, ogni regione del mondo dovrà far fronte a imprevedibili aumenti dei rischi climatici.

E nonostante questi rischi, ad oggi, i flussi finanziari pubblici e privati per i combustibili fossili sono ancora maggiori di quelli per l'adattamento e la mitigazione del clima.

Il processo di decarbonizzazione è invece ineludibile per gli obiettivi internazionali di sviluppo sostenibile stabiliti dagli accordi di Parigi 2015, dall'Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dal Green Deal EU, dal programma Next Generation, dalla legge europea sul clima approvata il 21 giugno 2021, da Fit for 55 e dal RePower EU. Gli obiettivi europei attualmente condivisi sono l'abbattimento delle emissioni UE del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica fissata per il 2050. La Commissione europea ha emanato il 6 febbraio 2024 una nuova raccomandazione per la riduzione del 90% delle emissioni di CO2 al 2040.

La riduzione delle emissioni deve essere dunque drastica. Non si può perdere tempo né disperdere risorse su investimenti che non consentono di raggiungere lo scopo.

La transizione ecologica, se affrontata nella maniera giusta, è una grande opportunità occupazionale; se invece viene affrontata con ritardo causerà una perdita di posti di lavoro. Per questa ragione bisogna promuovere, in tempi rapidi, politiche e investimenti pubblici in grado di governare la riconversione industriale e produttiva verso filiere strategiche e sostenibili sul piano ambientale e sociale. È un terreno decisivo per la competizione delle imprese, per ridurre i costi energetici e la dipendenza da altri Paesi caratterizzati, tra l'altro, da una grande instabilità geopolitica. In questi anni abbiamo toccato con mano l'alta volatilità dei prezzi del petrolio e del gas. La guerra in Ucraina prima, e ora le drammatiche vicende del Medio Oriente, ne sono una evidente testimonianza. Fino a qualche tempo fa, gas e petrolio erano ritenuti convenienti perché il loro prezzo era basso e tendenzialmente in calo. Si tratta però di materie prime di cui il nostro Paese non dispone, e per le quali dipendiamo prevalentemente da Paesi terzi e da meccanismi di prezzo estremamente variabili che schizzano verso l'alto in presenza di tensioni internazionali.

Si tratta quindi di fare una scelta strategica andando al cuore del problema: rendere possibile l'affrancamento dal gas e dal petrolio, investendo sulle fonti rinnovabili. È possibile farlo perché le tecnologie necessarie a sostituire i combustibili fossili sono già sostanzialmente presenti. Mobilità elettrica, pompe di calore, batterie, pannelli fotovoltaici e produzione eolica sono le componenti chiave della transizione, con fattori - quali prezzo, prestazioni, rischi, impatto ambientale, accettabili - dalla popolazione.

Bisogna essere consapevoli che raggiungere le condizioni per emissioni nette zero ha delle ricadute di notevolissima portata e non solo tecniche. Ha ricadute sulla qualità della produzione, sugli stili di vita, sulla scala dei valori, sulla finanza. Insomma, è un cambiamento profondo di natura sistemica, non soltanto una trasformazione tecnologica. Cambiare gli stili di vita, cambiare il modello economico e il modello sociale, sono tutti i temi decisivi per l'azione politica. Significa, infatti, ripensare i termini e i parametri del modello di sviluppo, orientandolo verso la qualità delle produzioni, la rivalutazione dei beni comuni e pubblici, la conoscenza e la cultura, la qualità sociale.

Naturalmente, raggiungere gli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili è una sfida molto impegnativa, che richiede una forte politica di sostegno, a partire dall'eliminazione degli ostacoli burocratici causati da stratificazioni di leggi e provvedimenti spesso in contraddizione tra loro e comunque difficili da attuare e dai tempi eccessivamente lunghi.

Occorre predisporre una politica industriale nazionale integrata con la nuova strategia industriale europea ed applicata alla politica commerciale. Una politica che sia in grado di rispondere - in modo efficiente ed efficace - ai mutamenti indotti dai nuovi scenari geopolitici e dalle esigenze di sicurezza economica (de-risking e conseguente affermazione della strategia autonoma aperta) che stanno innescando una riflessione sull’esigenza di attuare una revisione delle catene di approvvigionamento critiche (semiconduttori, strumenti medicali, batterie e materie prime strategiche, etc...), accorciando e semplificando le filiere e riducendo così la dipendenza dall’estero.

È indubbio che, in un simile contesto, il percorso dovrebbe condurre a una cooperazione istituzionalizzata attraverso il reale rafforzamento delle istituzioni internazionali (WTO su tutti) e, soprattutto, alla ridefinizione delle catene di produzione cruciali attraverso una strategia integrata tra Stati membri e UE e un mix coordinato di politiche nazionali ed europee.

Un processo di cambiamento così profondo necessita di un programma straordinario di investimenti, sostenuto da consistenti risorse comunitarie e nazionali per i prossimi decenni. Le recenti scelte economiche del governo sono totalmente inadeguate a mettere il Paese nelle condizioni di affrontare un passaggio storico di così grande portata. Attualmente le risorse disponibili sono contenute nel PNRR, nei fondi strutturali di investimento europeo 2021-2027, nel Repower EU, nei fondi per la giusta transizione e per l'innovazione, nei progetti di interesse comune europeo. Risorse che vanno utilizzate al meglio – cosa che non sta avvenendo nel nostro Paese – e che comunque non sono ad oggi adeguate ad affrontare la complessità della trasformazione verde, a maggior ragione di fronte all’accordo sul nuovo regolamento del patto di stabilità e crescita definito nella riunione dell’Ecofin del 20 dicembre 2023. Una proposta fondamentalmente sbagliata che, se approvata definitivamente, non solo aggraverebbe le difficoltà già presenti nell'economia continentale, ma precluderebbe all’Europa la possibilità di stanziare le ingenti risorse comuni necessarie per realizzare la transizione ecologica. Il nuovo patto di stabilità e crescita, all’insegna del ritorno all’austerità di bilancio, da una parte, e l’allargamento delle maglie sugli aiuti di Stato finalizzati a gestire le due transizioni dall’altra, finiscono col favorire quei Paesi che nei propri bilanci nazionali hanno spazi per recuperare risorse maggiori. L'Italia – il cui governo ha condiviso la proposta di revisione della governance economica europea – a causa dell’elevato debito pubblico e dell'andamento dei tassi di interesse che determina un incremento della spesa per il servizio del debito, non è in quelle condizioni.

L'Europa ha invece bisogno di nuove regole fiscali e di nuovi strumenti finanziari di mutualizzazione del debito e di condivisione dei rischi: sarebbe necessario, per esempio, un nuovo recovery sul modello del Next generation eu, per sostenere i processi di decarbonizzazione e per favorire gli investimenti finalizzati alla riconversione verde dell'economia. Per tutte queste ragioni le già limitate risorse disponibili non possono essere disperse, ma vanno concentrate per intero negli investimenti – pubblici e privati – sulle fonti rinnovabili, costruendo su di esse una vera e propria filiera industriale, nuovo sviluppo e nuove occasioni di lavoro di qualità, oltre che una vera autonomia del Paese nel campo delle politiche energetiche.

Le scelte del governo vanno in tutt’altra direzione. Gli indirizzi e i contenuti del nuovo Piano integrato energia e clima (PNIEC), del recente “Decreto energia” e del “Piano Mattei” sono preoccupanti e non possono essere condivisi. Con questi provvedimenti – assunti senza alcun processo partecipativo e che non prevedono alcuna strategia di politica industriale, di giusta transizione, finanziaria, né una legge per il clima – si prefigura un rallentamento del processo di decarbonizzazione con la messa in discussione del phase out dal carbone al 2025; si abbassa l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 del solo 40% rispetto all’obiettivo europeo del 55%; si prevedono nuove estrazioni nazionali e il rafforzamento delle infrastrutture per le importazioni di gas, per fare del nostro Paese l’hub europeo in questo ambito; si prevedono deroghe ai limiti emissivi delle centrali a carbone; nonché si intende avviare la sperimentazione della CCS, una tecnologia tutt'altro che economica, di dubbia sicurezza ed efficacia, e sulla quale non andrebbero destinate risorse pubbliche. Inoltre, nonostante due referendum dagli esiti inequivocabili, il governo intende rilanciare il nucleare, puntando sulla fusione – attesa da un decennio all'altro – e sui reattori di piccole dimensioni e modulari, malgrado i rilevanti problemi di sicurezza non ancora risolti, come l’individuazione del sito nazionale per i rifiuti radioattivi, i costi eccessivi e i tempi di realizzazione totalmente incompatibili con le scadenze e gli obiettivi fissati per la riduzione delle emissioni.

Il Piano Mattei, inoltre, si presenta come uno strumento di criminalizzazione delle migrazioni volto ad impedire la libertà di movimento dal continente africano mentre, sul piano economico, prefigura un'ottica di sfruttamento neocoloniale delle risorse energetiche e naturali dei paesi africani.

Sul PNIEC, invece, alcune delle criticità prima evidenziate sono state sollevate anche dalla Commissione Europea nelle raccomandazioni che il Governo dovrà recepire attraverso una revisione del Piano proposto, in vista della sua presentazione definitiva alla stessa Commissione entro il mese di giugno 2024. È l’occasione per modificarlo sostanzialmente, facendo valere il diritto alla partecipazione e alla contrattazione fino ad oggi negati.

In sostanza, nelle scelte compiute non si programmano gli investimenti pubblici necessari per la transizione energetica e per la “giusta transizione” per le lavoratrici e i lavoratori, e si assumono obiettivi modesti di sviluppo delle fonti rinnovabili. Una strategia sbagliata che non farà uscire il nostro Paese né dalle fonti fossili né dalla dipendenza energetica anche verso aree instabili dal punto di vista geopolitico.

• Le sfide della digitalizzazione

La transizione digitale rappresenta l’altro grande pilastro su cui si giocherà il futuro del nostro Paese e la sua collocazione all’interno degli scenari geopolitici del mondo.

Non è un caso che il 27% dei fondi, originariamente previsti nel PNRR siano stati destinati al tema della transizione digitale in maniera trasversale, con l’obiettivo di portare l'Italia nel gruppo di testa in Europa entro il 2026.

Quando parliamo di sfide della digitalizzazione ci riferiamo a temi strategici sia dal punto di vista delle politiche industriali, sia dal lato dell’occupazione e del diritto di tutti i cittadini a una connessione sicura, stabile e accessibile.

In questo scenario, lo sviluppo di reti ad alta velocita (fibra e 5G) rappresenta la conditio sine qua non per raggiungere gli obiettivi fissati, garantendo lo sviluppo economico e sociale del paese.

Inoltre, poiché tutti i processi di innovazione, tanto più quelli delle tecnologie digitali, hanno un forte impatto su consolidati modelli sociali e produttivi, il lavoro dovrà essere al centro dell’attenzione, per scongiurare il pericolo di una competitività basata esclusivamente sulle leggi di mercato che, in assenza di adeguate politiche di sistema, rischia di determinare arretramenti sul piano dell’occupazione, della tenuta dei redditi e delle tutele.

Le aziende, infatti, da tempo hanno iniziato a utilizzare le tecnologie per risparmiare sui costi e massimizzare così i profitti, determinando la perdita di posti di lavoro e la contrazione dei salari. Questo processo è già in atto in alcuni settori, per esempio quello dei call center, dove funzioni automatizzabili stanno dando il via a processi di espulsione di lavoratrici e lavoratori dal mercato del lavoro.

Alla base di un fenomeno di così rilevante cambiamento ci sono le innovazioni portate da AI, cloud, cybersecurity e analytics. Innovazioni che produrranno impatti non solo nel mondo dell’informatica o delle telecomunicazioni. Lo sviluppo dell’AI ha già raggiunto aree come la sanità, l’istruzione, il marketing, l’editoria, il settore giuridico e la finanza.

Diventa dunque necessario compiere uno sforzo straordinario per incidere anche sui processi decisionali attualmente in atto (come l’AI Act), per portare il tema del lavoro e della tutela dei diritti individuali e collettivi delle lavoratrici e dei lavoratori al centro della discussione.

Raccogliere e orientare la sfida dell’attuale rivoluzione digitale richiede,tra l’altro, un rilancio e una nuova capacità di contrattazione collettiva. La sua evoluzione e le sue conseguenze sul lavoro e sulla vita delle persone dipenderanno da quali mandati e obiettivi le saranno assegnati, da come si saprà controllare il suo funzionamento.

C’è bisogno di conquistare non solo il diritto all’informazione preventiva sulle trasformazioni delle imprese, ma la possibilità di contribuire a determinarne le scelte e gli indirizzi.

In un mondo dove imparare rappresenta, e rappresenterà sempre più, la priorità per affrontare le sfide del cambiamento, istruzione, formazione e riqualificazione professionale diventano oggi più che mai indispensabili per (ri)costruire professioni e professionalità e non subire negativamente questi processi, divenuti ormai irreversibili.

Colmare il gap di competenze digitali tutt’oggi presenti nel nostro Paese è un obiettivo prioritario per indirizzare e utilizzare a pieno le potenzialità di queste tecnologie secondo chiari indicatori sociali: trasporti e mobilità sostenibile, infrastrutture e rigenerazione urbana, servizi della P.A., servizi sociosanitari, gestione del ciclo dei rifiuti, della distribuzione dell’acqua e dell’elettricità.

Per tutte queste ragioni, lo sviluppo di reti ad alta velocità e i processi di digitalizzazione, proprio perché riguardano non solo il lavoro e il consumo, ma anche importanti settori della vita civile, devono essere trattati come beni comuni e gli stessi dati, che rappresentano la risorsa principale di quelle tecnologie, vanno considerati come uno spazio pubblico e come risorse delle comunità.

Sono queste le ragioni che ci portano a dire che c'è sempre più bisogno di un autorevole indirizzo e intervento pubblico. Il contrario di ciò che è stato fatto in passato e di ciò che sta facendo l'attuale governo.

Cosa sono e a che servono le politiche industriali: sono un insieme di strategie, politiche pubbliche, azioni di governo volte a influenzare lo sviluppo, la competitività e la sostenibilità del sistema produttivo di un Paese. In tale ambito rientra anche la cosidetta “finanza sostenibile” che seleziona gli investimenti in ragione dei fattori di tipo ambientale, sociale e di governance (ESG). Le politiche industriali sono fondamentali per la crescita, la creazione di posti di lavoro di qualità e la capacità di competere sui mercati globali.

Le politiche industriali in Italia: il nostro Paese ha avuto una lunga tradizione di politiche industriali. Principalmente sono state attuate dalle grandi imprese storicamente annoverate come partecipazioni statali. I grandi campioni nazionali quali Enel, Eni, Telecom Italia, Autostrade, Alitalia, Fincantieri, EniChem, Poste, Ferrovie dello Stato, ANAS etc, sono riuscite a realizzare politiche industriali nei settori di competenza, portando il nostro Paese ad eccellere in vari settori, grazie agli investimenti in innovazione e ricerca e all'alta capacità gestionale. In quegli anni si sono inventati e prodotti sistemi nuovi che hanno innovato, nei vari ambiti, la mobilità (Telepass), la telefonia (le ricaricabili), la chimica e la cantieristica, collocando le aziende ai primi posti della classifica mondiale. Quando nel 1991 l'Italia raggiunse il rango di quarta potenza mondiale, superando la Gran Bretagna in termini di PIL pro-capite, fra i 20 grandi gruppi industriali del Paese se ne contavano ben 13 a controllo pubblico. L’IRI e l’ENI si collocavano rispettivamente all'11° e al 18° posto fra le più grandi corporation al mondo. Insieme collocavano quasi mezzo milione di addetti, l'EFIM altri 35.000, Enel e Ferrovie altri 110 mila e 170 mila. Le Poste, per esempio, avevano circa 240 mila dipendenti. Verso la fine degli anni ’80 le sole imprese a partecipazione statale pesavano per il 6% del PIL e per il 12% degli investimenti nazionali. Con il decreto n. 333 del 1992, quel sistema iniziò ad essere smantellato inaugurando la stagione delle privatizzazioni di cui l’Italia divenne un campione mondiale negli anni ’90. Nel corso del periodo 1992-2007 l’Italia privatizzò circa 160 miliardi di dollari di asset industriali. Le privatizzazioni furono motivate non soltanto dal proposito di “fare cassa” per ridurre il debito pubblico, ma anche come intrinseca operazione di politica industriale. Si sosteneva che la vendita ai privati avrebbe reso le imprese pubbliche “più efficienti”, rafforzando il tessuto produttivo del Paese. Viceversa, si è assistito alla scomparsa o al forte ridimensionamento della grande impresa privata: Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli e Falk, Condotte, Astaldi. Le attività privatizzate più esposte alla concorrenza – fra cui Ilva, Italtel, successivamente Alitalia – hanno vissuto clamorosi tradimenti competitivi. In quelle a carattere monopolistico, in primis Telecom Italia e Autostrade, la profittabilità che prima costituiva una fonte interna di finanziamento del sistema pubblico si è trasformata in una rendita privata per pochi. Oggi, il governo sta valutando la possibilità di cedere ulteriori quote delle partecipate FS, Poste, Anas: verrebbe da dire “errare è umano ma perseverare è diabolico”.

Le politiche industriali dopo le privatizzazioni: fortemente ridimensionate, non collegate a investimenti, ricerca e innovazione, le politiche industriali si sono ridotte all'erogazione di incentivi tra i più vari, senza una strategia e una visione. In questo modo la consistente spesa pubblica non ha contribuito a rendere competitivo il sistema industriale italiano, non ha creato occupazione di qualità e, soprattutto, ha causato un lento declino degli assetti industriali del nostro Paese, non più in grado di reggere il confronto con gli altri Paesi ad alto sviluppo industriale.

Cosa significa non avere politiche industriali: un esempio negativo dell'assenza di politiche industriali e dei danni che comporta per lo sviluppo del Paese, tra i tanti che in questi anni si sono susseguiti, è quello della transizione energetica verso le rinnovabili. Nel 2010 il governo del Paese decise di incentivare massicciamente l'installazione dei pannelli fotovoltaici attraverso un sistema di forte remunerazione dell’energia prodotta. Il costo di quegli incentivi è ancora presente nelle attuali bollette di energia elettrica. La scelta compiuta è stata sì lungimirante, perché anticipava la necessità di ridurre il consumo di fonti fossili che sta determinando mutamenti climatici preoccupanti, ma sono mancate politiche industriali per indirizzare le aziende verso la produzione di pannelli fotovoltaici. In questo modo il grosso della ricchezza determinata da quella scelta è finito verso Paesi (Germania e Cina) che invece avevano attivato la produzione necessaria. Un errore in parte simile è avvenuto, anni dopo, con le politiche per la rigenerazione ed efficienza energetica del patrimonio edilizio costruito, compreso il c.d. superbonus. Errore non non solo verso alcune tecnologie (in particolare il solare), ma anche verso alcune forniture strategiche (acciaio, leghe metalliche e chimiche ecc.).

Il contesto attuale: come abbiamo detto in precedenza, oggi siamo in presenza di due trasformazioni epocali che avvengono con una velocità impressionante: la transizione energetica e quella digitale. Sbagliare le politiche industriali in questo contesto rischia di collocare fuori mercato la gran parte del tessuto industriale italiano. Solo a titolo di esempio, si veda il settore automotive che vedrà il superamento dei motori endotermici, di cui il nostro Paese è un produttore di eccellenza, a favore della mobilità elettrica; o ancora, il vincolo del raggiungimento della neutralità energetica degli immobili pubblici e privati entro il 2050, su cui siamo fortemente in ritardo in termini di qualificazione della filiera delle costruzioni, edilizia e materiali (con tappe intermedie già nel 2035). Bisogna considerare che il 36% di tutta la CO2 e il 40% degli sprechi energetici sono connessi al vetusto patrimonio infrastrutturale e immobiliare del Paese, che rappresenta il principale produttore di gas climalterante. Nei prossimi anni, quindi, bisognerà riposizionare l’intero apparato industriale italiano, e le politiche industriali – insieme ad adeguate politiche per la giusta transizione – sono lo strumento fondamentale per vincere la scommessa della competitività del nostro Paese. Inoltre, la creazione di buona occupazione, stabile, di qualità, dignitosamente retribuita, passa anche attraverso il settore manifatturiero, uno dei meno esposti alla stagionalità e alla frammentazione dei processi produttivi. Gli strumenti utilizzati in questi anni hanno evidenziato limiti enormi. Da un lato gli strumenti di intervento economico, con CDP vincolata a rendimenti certi nell'immediato sugli investimenti realizzati e Invitalia con la sua una scarsa dotazione finanziaria; dall'altro lato, gli accordi di programma, di sviluppo, per le aree di crisi complesse e no, che non hanno consentito un rilancio reale delle attività industriali, disperdendo risorse con interventi scarsamente efficaci o poco selettivi. Lo dimostrano le tante crisi presenti presso il tavolo del Mimit (ieri Mise), che faticano a trovare soluzioni e spesso restano impantanate, per essere “risolte” per consunzione. Si aggiunga che la destrutturazione delle grandi imprese partecipate, le norme sul lavoro varate e la scelta generale di competere esclusivamente sul costo del lavoro hanno prodotto una frammentazione delle imprese, sempre più piccole, che oggi non hanno massa critica e finanziaria per sostenere gli investimenti necessari a riposizionarsi sul mercato.

Per quanto riguarda la transizione ecologica, manca un quadro di riferimento strategico che definisca la direzione, gli obiettivi e i target da perseguire con le politiche industriali, ma anche con coerenti politiche fiscali, di ricerca e sviluppo, di sostegno alle filiere strategiche per la decarbonizzazione, ecc. Ci riferiamo in particolare a una legge sul clima che indichi tempi e obiettivi, che pianifichi la riduzione delle emissioni di almeno il 55% al 2030, rispetto al 1990, per poi raggiungere la neutralità climatica al 2050, orientando su questo gli investimenti pubblici e privati e le scelte strategiche delle imprese.

Gli interventi da introdurre nella transizione digitale

In primo luogo, bisognerebbe non ripetere gli errori commessi con la privatizzazione di un asset strategico come quello delle telecomunicazioni.

Dopo la scellerata decisione di privatizzare Telecom Italia (avvenuta negli anni ’90, con modalità che hanno indebitato pesantemente l'azienda), si è dato nuovamente il via a una stagione in cui dismissioni e vendite sono state le uniche risposte immaginate per sanare i debiti. Una stagione ancora in corso: l'attuale governo, nei mesi scorsi, ha infatti approvato lo spacchettamento dell'ex incumbent, la cui rete è stata collocata presso un nuovo soggetto industriale capitanato da un fondo speculativo americano (KKR).

Un unicum in tutta Europa, che non ha esempi significativi in nessun altro Paese del mondo. Separare l'intelligenza e la tecnologia della rete produrrà un impoverimento in termini di innovazione, sviluppo e ricerca e condannerà il Paese ad essere marginale rispetto ai grandi competitor europei ed extraeuropei.

Per questo continuiamo a sostenere che il ruolo di Telecom (l'ex incumbent nazionale) doveva essere rafforzato, prevedendo una partecipazione pubblica significativa: non serve un'azienda che si limiti a vendere connettività al mercato, ma un grande player che sappia indirizzare le politiche del Paese sulla digitalizzazione, creando così un nuovo e diverso sistema di convenienze anche per investimenti privati.

Questo in ragione della necessità di dotarci di una rete unica, ugualmente performante, con la garanzia di investimenti omogenei e costanti su tutto il territorio nazionale. Quello che invece si è scelto di fare è di limitarsi ad opzionare il 20% delle quote azionarie della sola azienda di rete, che non garantiscono alcuna funzione di orientamento e/o di controllo.

Per contemperare gli interessi dei consumatori e quelli delle aziende che investono (nel settore digitale sono continui e ingenti gli investimenti necessari ad accompagnare le rapide trasformazioni), sarebbe inoltre necessario ridurre il numero degli operatori (sia virtuali che reali), per evitare che la competizione sui prezzi azzeri il margine di investimenti che queste aziende devono produrre. Non procedere in tale direzione comporta appunto il rallentamento, già in atto da diversi anni, degli investimenti che causerà un grave ritardo nell’innovazione tecnologica (l’ultima relazione annuale, Agcom parla di una perdita di valore di mercato nelle telecomunicazioni pari a -13,7% in 5 anni, nonostante l’esplosione degli abbonamenti e della trasmissione dei dati).

Parallelamente allo sviluppo della rete digitale, è necessario sviluppare tutti gli interventi indispensabili per connettere scuole, sanità, enti locali, enti pubblici e permettere il dispiegarsi del potenziale espresso dalla digitalizzazione. Questo anche rivedendo le procedure sino ad ora adottate dalla pubblica amministrazione, attraverso una reingegnerizzazione dei processi che consenta una vera rivoluzione nei rapporti con la PA in termini di efficienza, efficacia e trasparenza delle procedure, favorendo un vero contrasto alla corruzione. Per realizzare questo obbiettivo occorre procedere a un massiccio piano di assunzioni nelle PA, per reperire le competenze necessarie a realizzare la digitalizzazione.

Determinante per il raggiungimento degli obiettivi fissati sarà anche accompagnare il lavoro di migrazione dei dati delle pubbliche amministrazioni verso il Polo Strategico Nazionale, condividendo con i soggetti coinvolti fabbisogni e processi. Ciò significa che dovrà essere garantita una adeguata formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, per assicurare una coerente e costante implementazione delle loro competenze digitali (i dati del Desi ci collocano agli ultimi posti nella classifica europea in tema di competenze digitali).

Se è vero che la missione più urgente è quella di proteggere i dati critici e strategici delle Pa, garantendo rispetto della privacy e riparo dalle minacce informatiche, bisogna lavorare, al contempo, per costruire applicazioni nazionali che siano univoche e dunque in grado di raccogliere e gestire in maniera omogenea e sicura i dati dei cittadini e delle aziende. Solo così riusciremo a raggiungere gli obiettivi del “once only” e a rendere praticabili processi di semplificazione burocratica.

Infine, crediamo che la strategicità di tutta l’operazione passi anche attraverso l’eliminazione di tutti quei data center che ad oggi non garantiscono i requisiti minimi di sistema e/o di sicurezza, in favore della migrazione dentro i 4 data center che costituiscono il Polo Strategico Nazionale. Questo porterà ad un risparmio considerevole sui conti dello Stato e, se calcolato su larga scala, anche a un aumento del risparmio energetico.

Le tecnologie digitali sono fattori chiave per la transizione ecologica e il rispetto degli obiettivi della Legge europea per il clima. Per esempio, possono dare un contributo straordinario in termini di monitoraggio per favorire l’economia circolare; le simulazioni e le previsioni dell’intero ciclo di vita di un prodotto possono migliorare l’efficienza dei processi produttivi, la virtualizzazione di produzioni e consumi, riducendo l’impatto ambientale; l’utilizzo di tecnologie per la gestione dei sistemi può ottimizzare operazioni e gestione dei servizi, come nelle città intelligenti, dove la digitalizzazione delle reti è indispensabile per l’elettrificazione dei consumi; ecc. Allo stesso tempo dobbiamo evitare che le tecnologie digitali costituiscano un ulteriore onere ambientale e climatico.

Quanto alle ingenti risorse messe a disposizione dal PNRR per la creazione di una infrastruttura di rete (in fibra e 5G) che garantisca la connettività in tutte le aree del paese, le scelte compiute rischiano di far fallire gli obiettivi fissati. Gli oltre 4 miliardi previsti per colmare i divari che ancora condannano ampie parti del Paese a una insostenibile arretratezza tecnologica sono stati messi a bando, prevedendo un contributo pubblico in misura del 70-90% a beneficio degli aggiudicatari. Un’idea con cui, ancora una volta, si è scelto di affidare al mercato lo sviluppo di un asset così strategico. Ma 10, 20, 30 piccole reti non fanno una rete unica. Che una simile scelta sia stata assunta dopo la pandemia è semplicemente inaccettabile. Durante l’emergenza sanitaria, infatti, il grado di connettività ha segnato la differenza tra chi ha potuto studiare e lavorare e chi no, alimentando ulteriori, insopportabili disuguaglianze.

Lo confermano i grandi ritardi di copertura fino ad oggi accumulati, che rischiano di far perdere all'Italia i miliardi destinati alla costruzione di una capillare ed efficiente infrastruttura nazionale per la banda ultra-larga. Eppure, l’infrastruttura digitale rappresenta l’autostrada su cui le innovazioni tecnologiche potranno e dovranno correre: dalle scuole alla sanità, passando per i distretti industriali o gli uffici pubblici, perdere questa scommessa non è davvero accettabile.

Quanto all’uso di nuove tecnologie, AI in testa, quello che emerge è la necessità di mantenere un equilibrio tra la spinta verso lo sviluppo dell’innovazione in Europa e l’esigenza di garantire il rispetto dei diritti personali e collettivi fondamentali.

Vanno evitate qualsiasi forma di discriminazione e la concentrazione del potere nelle mani di pochi. Quello che serve è la definizione di politiche che preservino i principi universali di tutela e consentano una rapida manutenzione delle normative per seguire le evoluzioni e gli impatti dell’Intelligenza Artificiale sui diversi settori.

Il che implica una nuova rapidità nella lettura dei mutamenti in corso e un rapido adeguamento delle regole, ben sapendo che i punti fermi, sui quali non si può e non si deve transigere, sono quelli che riguardano i diritti delle persone.

Partendo da questi principi, va posto l’accento anche sui potenziali vantaggi che un corretto utilizzo dell’IA potrà determinare, nell’industria così come in altri settori, dove innumerevoli sono le applicazioni che consentono di velocizzare processi di calcolo, riducendo i tempi delle lavorazioni.

Contemporaneamente, molteplici sono anche i rischi che un utilizzo indiscriminato e non governato di questa tecnologia può causare, soprattutto considerando l’impressionante velocità con la quale si è diffusa l’IA generativa.

Si deve dunque procedere in direzione di un investimento politico che punti alla costruzione di maggiore sovranità europea comune anche in ambito digitale, con più condivisione delle capacità tecnologiche e un adeguato coordinamento su ricerca e sviluppo.

Gli interventi da introdurre nella transizione ambientale

Produzione di energia, aumento delle rinnovabili

Crisi climatica e crisi energetica sono due facce della stessa medaglia. Non c'è un prima e un dopo per affrontare queste complessità ed è necessario accelerare il processo di decarbonizzazione per dare un responsabile contributo al contrasto alla crisi climatica, ma anche per cogliere tutti i fattori positivi: autonomia energetica, riduzione dei costi, sviluppo di nuove filiere produttive strategiche, creazione di buona occupazione, contrasto alla povertà energetica.

L'Italia resta la seconda manifattura d’Europa e in prima fila tra le economie avanzate. La sfida è conservare questa posizione coniugando sviluppo sostenibile con difesa e creazione di lavoro di qualità. Per riuscirci il processo di transizione va governato tenendo insieme strumenti di politica industriale e di sviluppo con politiche di giusta transizione. Restare ancorati a un modello produttivo fossile, come sta facendo il governo, ci condannerebbe in tempi brevi a una dipendenza tecnologica, oltre che energetica, con perdita di produzioni e occupazione, aumento dei prezzi, desertificazione industriale, incremento delle disuguaglianze.

Le soluzioni da adottare:

  1. impiegare tutti i nuovi investimenti per sviluppare risparmio ed efficientamento energetico, produzione energetica da fonti rinnovabili, sistemi di accumulo, filiere produttive e strategiche per la decarbonizzazione, agevolando tutti i relativi investimenti pubblici e privati. Un contributo a questo percorso può venire dalle stesse FER tradizionali quali l’idroelettrico (utile anche per il sistema di accumulo) e geotermia a bassa entalpia. Per concretizzare tutto ciò è importante semplificare le procedure – anche riconducendo, se necessario, la titolarità a livello nazionale – e gli iter autorizzativi, compresi quelli per l’eolico off-shore. Nel processo di snellimento degli iter autorizzativi vanno in ogni caso garantiti la tutela dell’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi come sancito dall’articolo 9 della Costituzione.
    Sarebbe già possibile autorizzare da subito, e realizzare nell'arco di tre anni, nuovi impianti a fonti rinnovabili per 60 GW di potenza (come proposto da Elettricità Futura). La stessa associazione prevede di poter installare, al 2030, 131 GW di impianti rinnovabili (di cui circa 80 GW fotovoltaici e circa 28 GW eolici), con un incremento di circa 74 GW rispetto al 2021. Va quindi definito con trasparenza il fabbisogno complessivo di gas in questo momento e pianificata una curva di riduzione graduale ma rapida, coerente con l'impegno di ridurre le emissioni del 55% al 2030 e di raggiungere la neutralità climatica al 2050;
  2. aprire un confronto urgente tra governo e parti sociali che – a partire dagli impegni assunti nella “Risoluzione relativa a una giusta transizione verso economie e società ambientalmente sostenibili per tutti”, adottata nell’ambito della 111ma conferenza internazionale del lavoro – definisca modalità di governance partecipata, piani, misure e risorse per una Giusta Transizione ecologica. In particolare: pianificare la transizione ecologica delle attività produttive, adottare misure per evitare impatti sociali ed occupazionali negativi, disegnare una riforma fiscale in chiave ambientale, individuare risorse europee e ordinarie per integrare il Just Transition Fund, allargandone l’utilizzo a tutti i settori interessati dalla riconversione e su tutto il territorio nazionale, integrare il fondo sociale per il clima, promuovere l’utilizzo del fondo sociale europeo per la riqualificazione e la formazione dei lavoratori per le nuove competenze;
  3. solarizzare i tetti e le coperture disponibili senza nuovo consumo di suolo. Il rapporto ISPRA 2023 sul consumo di suolo indica che la superficie potenzialmente disponibile per l'installazione di impianti fotovoltaici sui tetti può variare da 757 a 989 km², stimando una potenza installabile sui fabbricati esistenti variabili dai 73 ai 96 GW;
  4. definire un piano pluriennale per il risparmio energetico e l'elettrificazione delle abitazioni, a partire dalle aree più degradate e dalle periferie urbane. Al riguardo il tema del risparmio e dell’efficienza energetica (cioè della riduzione al minimo degli sprechi energetici) è tanto importante quanto l’aumento di produzione di energia da fonti rinnovabili al fine di raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale definiti in sede ONU e UE. Questo vale per il consumo energetico a fini della produzione di beni e servizi, ma anche e soprattutto a livello di patrimonio immobiliare pubblico e privato diffuso (uffici, scuole, ospedali, case). Al riguardo una recente ricerca (ottobre 2023; Savanta e 89 up) dimostra come, per esempio, se si intervenisse sugli immobili pubblici e privati più energivori (classe G; pari al 27% del totale) a fronte di un costo totale di circa 50 miliardi di euro (5 miliardi l’anno per 10 anni) si avrebbe un risparmio di costi energetici (stimato nei 20 anni successivi) pari a quasi il doppio (94 miliardi), riducendo di oltre il 9,7% l’attuale fabbisogno energetico nazionale. Al riguardo rinviamo alla proposta presentata in collaborazione con il centro studi NENS, per una riforma più selettiva e organica dei vari incentivi e strumenti dedicati alla riqualificazione del patrimonio immobiliare.
  5. promuovere la mobilità sostenibile, integrata e intermodale, privilegiando il trasporto collettivo pubblico, l'elettrificazione, il trasferimento da gomma a ferro e marittimo dei trasporti a lunga percorrenza, la mobilità condivisa e la mobilità dolce;
  6. supportare e diffondere le comunità energetiche affinché pubbliche amministrazioni locali, scuole, ospedali, centri commerciali, associazioni, cittadini, piccole e medie imprese possano unirsi per realizzare impianti per la produzione e la condivisione di energia da fonti rinnovabili;
  7. sviluppare sistemi di accumulo per affrontare la non programmabilità di eolico e fotovoltaico in particolare. Per farlo esistono già oggi numerosi sistemi, alcuni dei quali già ampiamente sperimentati e usati e altri in fase di sviluppo: sistemi di pompaggio idroelettrico, batterie dei veicoli elettrici connesse alla rete attraverso le colonnine di ricarica;
  8. adeguare la rete elettrica coerentemente con lo sviluppo esponenziale delle fonti rinnovabili, rinforzandola, ampliandola e interconnettendola con il sistema di accumulo;
  9. eliminare i SAD (sussidi ambientalmente dannosi).

Settore industriale

L’obiettivo di ridurre, nel 2030, del 62% le emissioni rispetto al 2005, e il raggiungimento della neutralità nel 2050 rappresentano una sfida significativa per l’industria italiana. Il settore industriale produce oggi il 40% delle emissioni totali di gas effetto serra dell’UE. A questo si aggiungono le recenti modifiche introdotte dall’Europa, che terranno alti i valori di acquisto dei permessi per l’emissione di singole tonnellate di CO2. Tale meccanismo impone investimenti significativi e non rinviabili per abbattere le emissioni, pena una progressiva minore competitività sul mercato europeo a causa dei costi crescenti. In questo ambito, particolare attenzione andrà posta ai settori “hard to abate”, attraverso la ricerca sulle nuove tecnologie necessarie ad abbattere le emissioni. In particolare, lo sviluppo dell’idrogeno verde rappresenta, attualmente, una risorsa promettente per intervenire drasticamente sulla riduzione delle emissioni. Per questi motivi è indispensabile agire sulla filiera produttiva atta a sostenere lo sviluppo dell’idrogeno verde, prodotto con elettrolizzatori, nelle immediate vicinanze degli impianti da decarbonizzare. La costruzione di elettrolizzatori, e la componentistica necessaria, e l’efficienza idrica (la produzione di idrogeno verde richiede importanti risorse idriche in un rapporto di 9 litri d’acqua per produrre 1kg di idrogeno) anche attraverso il riutilizzo di acqua, consapevoli che la maggior produzione di energia rinnovabile, necessaria ad alimentare gli elettrolizzatori, è concentrata nel sud del Paese che, invece, scarseggia di risorse idriche. Efficientare la rete degli acquedotti ed agire sulla costruzione di bacini idrici (che svolgerebbero anche la funzione di contenere le piogge eccessive causate dai cambiamenti climatici e conservare l’acqua) diventa perciò strategico per lo sviluppo della filiera.

I trasporti

Il settore dei trasporti è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas effetto serra e del 30,7% delle emissioni di CO2, il 71,7% delle quali viene prodotto dal trasporto su strada, a cui vanno aggiunte le emissioni del settore aviazione e marittimo. Sul settore aviazione la commissione punta sull’utilizzo di bio combustibile, in attesa di sviluppare l’idrogeno, e in presenza di sperimentazioni su motori elettrici e studi per l’utilizzo dell’ammoniaca liquida. In questo contesto in continua evoluzione, sono essenziali la ricerca e lo sviluppo delle tecnologie più avanzate e sostenibili e con un minor impatto ambientale e climatico. Da tutti i punti di vista, i biocombustibili non sono la soluzione migliore. Possono avere, fermo restando la scelta irrevocabile del superamento al 2035 del motore endotermico, solo un periodo di utilità transitoria nell’alimentazione delle vecchie auto che al 2035 continueranno a circolare (calcolando che, su un parco veicoli di 36 mln, se ne sostituiranno con auto elettriche ottimisticamente 2 mln l’anno, resterebbero oltre 10 mln di auto con motore endotermico circolanti anche dopo il 2035). Sul settore marittimo è stato esteso il sistema ETS. Il sistema sarà applicato alle navi con stazza superiore a 5000 tonnellate, responsabili del 90% delle emissioni di CO2. Occorre per questo accelerare un percorso di giusta transizione anche nel settore marittimo, per garantire la tutela del lavoro e la riconversione, puntando su ammodernamento delle flotte, cantieristica navale sostenibile, elettrificazione dei porti, produzione di energia da fonti rinnovabili, utilizzo retroporti per riconversione attività industriali, promozione inter-mobilità, ecc... Necessario, infine, procedere alla elettrificazione delle banchine. Auto e furgoni rappresentano il 15% delle emissioni totali di CO2 e su tale settore è previsto l’intervento più drastico, con il 55% di riduzione al 2035 e la neutralità al 2050. I ritardi del nostro Paese su questo fronte sono, probabilmente, i più gravi e rischiano di mettere “fuori gioco” un pezzo importante dell’industria italiana. Mentre nel mercato europeo le immatricolazioni di auto elettriche rappresentato oltre il 10% delle nuove vendite, il nostro Paese rappresenta il fanalino di coda con una percentuale inferiore al 4%. A ciò si aggiunge un ritardo importante nello sviluppo dell’infrastruttura di ricarica, soprattutto quelle rapide che lavorano tra i 350 e i 740 KWatt.

A giugno 2023, in Italia, risultano installati circa 45.000 punti di ricarica ad accesso pubblico. Un quinto di questi non risulta utilizzabile perché non allacciato alla rete elettrica, o per altre questioni di natura autorizzativa. Lo scenario presentato dallo Smart Mobility Report 2022, redatto dal Politecnico di Milano, prevede un numero totale di punti di ricarica ad accesso pubblico in Italia pari a 55.000 al 2025 e 95.000 al 2030. Le infrastrutture di ricarica lungo le arterie autostradali sono indispensabili per facilitare gli spostamenti su tratti extraurbani e per favorire l’elettrificazione delle flotte aziendali. Al momento si contano sulle autostrade italiane un totale di punti di ricarica a uso pubblico pari a 657 unità, di cui oltre il 77% con potenza superiore a 43 kW. Considerando i 7318 km di rete autostradale in Italia, sono presenti 8,9 punti di ricarica ogni 100 km di rete autostradale, di cui 6,8 a ricarica veloce e ultraveloce. Per far fronte all’espansione dell’elettrico sono necessari importanti interventi infrastrutturali a supporto dell’installazione delle stazioni di ricariche, in contesti extraurbani e urbani (ove le criticità sono ancora più significative per come sono strutturate le città), e un’accelerazione del processo di installazione di impianti per fonti rinnovabili, per rendere effettivamente «green» questa mobilità.

In questo ambito è indispensabile sviluppare politiche industriali utilizzando varie leve: da un lato la riduzione del traffico privato (il PNIEC fissa una riduzione del traffico privato pari al 10% entro il 2035), dall’altro la costruzione della filiera per la produzione di auto elettriche e lo sviluppo di una rete di ricarica che renda appetibile l’utilizzo dei veicoli elettrici. E’ perciò sbagliata la richiesta del Governo italiano di rinviare le scadenze, evocando inverosimili cambi di strategia in Europa: le principali imprese automobilistiche, sostenute convintamente dai rispettivi Paesi, hanno imboccato con decisione questo percorso, che non sembra destinato ad essere interrotto. Trasporto pubblico locale elettrico (tram, filobus, autobus elettrici), mobilità condivisa e mobilità dolce, smart working sono le leve principali per ridurre il traffico privato. Quindi vanno sviluppate le filiere produttive per “elettrificare” il trasporto pubblico. La roadmap nazionale verso i traguardi al 2030 e il net-zero CO2 emissions al 2050 individua, per i trasporti pubblici, un ruolo decisivo sia in termini di innovazione delle tecnologie propulsive che per la maggiore quota di share modale che si dovrà raggiungere. Obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se ci fossero risorse adeguate per il trasporto pubblico locale.

Il trasporto pubblico locale e regionale rappresenta una componente imprescindibile per il raggiungimento di una mobilità realmente sostenibile, anche dal punto di vista sociale, garantendo l’accesso alla mobilità per tutti anche nelle periferie e per le fasce più povere della popolazione: il TPL è una leva fondamentale per la ripresa e lo sviluppo economico del Paese ed è determinante per ridurre il carico di emissioni. Bisogna rinnovare / ammodernare il parco rotabile composto da 42894 mezzi, dei quali l’87% (37343) è diesel, di cui il 9% Euro 2, il 25% Euro 3, il 9% (3880) a metano, GPL, GNL, il 2% (659) ibridi, l’1% (621) a zero emissioni e 391 ad altre alimentazioni (fonte MIT).

La media dell’età del parco circolante resta ancora più alta rispetto agli altri Paesi più industrializzati. La proroga decisa dal Governo sui mezzi Euro 2 ed Euro 3 rappresenta un ulteriore freno sul piano della transizione ambientale. È necessario programmare un piano decennale che preveda l’immissione di circa 4000 autobus/anno, per portare la media del parco a 7 anni di età e allinearci così ai principali partner europei.

Anche se i dati, pubblicati dal portale statistico Anfia, hanno segno positivo (nel 2023 sono stati immatricolati 5.119 autobus, più 56,2% rispetto l’anno precedente), siamo ancora molto lontani da una decarbonizzazione del settore, in considerazione che la motorizzazione che va per la maggiore è ancora il diesel, +61,4% (1.967 contro i 1.219 del 2022), e gli elettrici passano da 85 del 2022 a 219 unità (+157,6%).

Nelle metropoli, l’alternativa del trasporto pubblico locale diventa una priorità non più rinviabile.

Con la diffusione dei veicoli elettrici sarà indispensabile sviluppare una rete di assistenza (officine), che deve garantire la maggior prossimità e dovrà sostituire, in coerenza con la maggior presenza sul mercato di auto elettriche, la rete di officine che oggi lavorano sui motori endotermici. E’ evidente che formazione e sostegno economico sono indispensabili per evitare che l’attuale rete si trovi ad essere messa fuori mercato, con conseguenze sociali drammatiche.

Vive una situazione particolarmente complessa anche il settore del trasporto merci. In questo ambito i furgoni, utilizzati nella distribuzione del cd ultimo miglio, seguiranno la stessa logica del settore auto, con un processo di elettrificazione della mobilità. Tema diverso riguarda la mobilità lunga e, in particolare, quella che attraversa le dorsali, che dovrà essere spostata su ferro e marittimo, riducendo progressivamente il trasporto merci su strada. L’idrogeno verde, con elettrolizzatori nelle stazioni di rifornimento e nei porti, potrà essere sperimentato nel settore marittimo, nelle tratte ferroviarie difficili da elettrificare e, solo in maniera marginale, nel trasporto merci su gomma di lunga percorrenza. Per rispettare gli impegni previsti dal Green Deal Europeo e le disposizioni del Fit for 55%, in attesa di un completo sviluppo delle potenzialità espresse dall’idrogeno e altre tecnologiche innovative, si possono utilizzare soluzioni transitorie meno inquinanti.

Con riferimento alle grandi infrastrutture, confermiamo come fondamentale la scelta, avviata sin dal 2016 con il Piano Pluriennale Connettere l’Italia, di individuare come prioritari gli interventi volti a potenziare il trasporto di merci e persone su ferro e acqua, invece che su gomma, tenendo insieme la costruzione di nuove infrastrutture (le 26 opere prioritarie di cui, quelle ferroviarie, sono inserite anche nel PNRR, come acceleratore di spesa) con piani straordinari di manutenzione profonda delle tratte secondarie. Rfi (ma anche di Anas e di Aspi), nei fatti, dovrà avere una una funzione di promozione industriale della filiera delle infrastrutture pesanti. Si tratta di rafforzare ancora di più la capacità programmatoria delle grandi stazioni appaltanti pubbliche, volte a promuovere e consolidare indotti locali intorno ai grandi player delle costruzioni (We Build ma non solo) e completare, nei tempi previsti, gli interventi sui corridoi ferroviari e sul potenziamento delle autostrade del mare, senza disperdere risorse e attenzione su altri interventi. Per realizzare l’insieme degli obiettivi europei fissati è necessario garantire un processo di programmazione certo attraverso l’elaborazione di un nuovo “piano generale dei trasporti e della logistica”.

• L’efficienza energetica

La combustione del carburante è responsabile di oltre tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE. Per contenere il consumo di energia, gli stati membri dovranno garantire collettivamente una riduzione del consumo energetico di almeno l’11,7% entro il 2030. Oggi il riscaldamento e il raffreddamento degli edifici rappresentano il 40% di tutta l’energia consumata nella UE. Il parlamento europeo sta lavorando a norme di rendimento energetico degli edifici, con l’obiettivo di raggiungere zero emissioni entro il 2050. Le norme prevederanno strategie di rinnovamento, emissioni zero per tutti i nuovi edifici al 2030 e pannelli solari in tutti i nuovi edifici. In questo ambito è fondamentale che il settore industriale inizi a convertirsi alla produzione di pompe di calore, che rappresentano la modalità per ridurre il consumo energetico.

L’economia circolare e la gestione dei rifiuti

L'economia circolare è un approccio economico e ambientale che mira a ridurre al minimo lo spreco di risorse e l'impatto ambientale, attraverso la riprogettazione dei processi produttivi, il riciclo dei materiali e il prolungamento della vita utile dei prodotti. È necessario che, nel nostro Paese, l’economia circolare diventi una priorità politica, con l'obiettivo di ridurre la dipendenza dalle risorse non rinnovabili e di mitigare l'impatto ambientale.

La gestione virtuosa dei rifiuti deve partire da politiche per la riduzione della loro produzione e dal riuso. Il riciclo mira a ridurre la quantità di rifiuti inviati in discarica e a promuovere il riutilizzo dei materiali (oltre il 70% dei rifiuti speciali sono di provenienza edile). Diverse politiche e direttive dell’Unione europea promuovono l'adozione dell'economia circolare e la gestione sostenibile dei rifiuti, tra cui:

  • la Direttiva sui rifiuti (2008/98/CE): stabilisce il quadro normativo per la gestione dei rifiuti nell'UE e promuove la prevenzione, il riciclo e il loro recupero, nonché la riduzione delle discariche;
  • la Direttiva sui rifiuti di imballaggio (94/62/CE): mira a ridurre l'impatto ambientale degli imballaggi promuovendo il loro riciclo e il riutilizzo;
  • la Direttiva sull'end-of-life dei veicoli (2000/53/CE): stabilisce norme per il recupero e il riciclo dei veicoli fuori uso, al fine di ridurre l'impatto ambientale associato alla demolizione degli stessi;
  • la strategia per la plastica nell'economia circolare: L'UE ne ha sviluppato una per affrontare il problema della plastica monouso, promuovendo il riciclo e la sua riduzione nell'ambiente;
  • la proposta di regolamento su imballaggi e rifiuti da imballaggi.

Nel 2015, la Commissione europea ha presentato un pacchetto sull'economia circolare che includeva misure per migliorare il riciclo, la prevenzione dei rifiuti e l'eco-design dei prodotti. Il processo trasformativo da economia lineare a economia circolare deve investire tutti i settori produttivi. L’economia circolare parte dalla innovazione di processo e di prodotto, finalizzata a ridurre il consumo di materiali ed energia. La gestione dei rifiuti e l’utilizzo delle materie seconde sono solo una minima parte di questo processo. L’eco design deve favorire lo smontaggio dei prodotti per il riutilizzo delle parti. Occorre contrastare l’obsolescenza programmata e promuovere la durabilità dei prodotti, favorendo la manutenzione e la riparazione invece della cultura dello scarto e del consumo sfrenato. Va promosso il riuso prima del riciclo.

L’Italia ha raggiunto significativi livelli di raccolta differenziata, ma esiste un divario tra i modelli adottati nel centro nord del nostro Paese da quelli in uso nel centro sud. È indispensabile far sviluppare anche qui il modello delle multiutility pubbliche che rendano efficaci le politiche sulla raccolta differenziata, arrivando a sviluppare pienamente il modello dell’economia circolare.

Le tre R che caratterizzano le politiche europee (riduzione, riuso, riciclo) devono diventare il faro per le politiche industriali. Solo un soggetto pubblico, finanziariamente robusto, può creare le condizioni per gestire al meglio il ciclo dei rifiuti riducendone al minimo il conferimento in discarica. Questi sforzi contribuiscono all'obiettivo più ampio di ridurre l'impatto ambientale e di promuovere un'economia più sostenibile, attraverso appunto l'economia circolare. Inoltre, i rifiuti possono diventare preziosi in termini di creazione di bio-combustibili (il compostaggio) e una vera risorsa per l’industria per quanto attiene le materie prime da riutilizzare, evitando di considerare infinite le risorse del pianeta.

Le multiutility, peraltro, si sono rilevate tra i soggetti che più hanno investito sui territori con un ritorno positivo in termini di ricadute occupazionali. Infine, tale modello di politica industriale sottrae il ciclo dei rifiuti al controllo della criminalità organizzata e diventa un attrattore di investimenti per quei modelli industriali che basano il loro business sull’utilizzo di materiale riciclato, tema su cui l’opinione pubblica manifesta sempre maggiore sensibilità.

• La filiera agroalimentare

La transizione ambientale e la filiera agroalimentare costituiscono un versante di grande rilevanza in Italia, così come in molte altre parti del mondo. La transizione ambientale riguarda il passaggio a un'economia e a uno stile di vita più sostenibili, con l'obiettivo di preservare l'ambiente e combattere i cambiamenti climatici. La filiera agroalimentare, d'altra parte, è un settore economico di fondamentale importanza in Italia, responsabile della produzione, trasformazione, distribuzione e vendita di prodotti alimentari. Anche il sistema agroalimentare, mediante l’implementazione della strategia “dal produttore al consumatore”, è chiamato a contribuire al Green Deal europeo. Tale strategia è finalizzata a promuovere la transizione dell’agricoltura dell’UE verso prassi e metodi più sostenibili.

Agricoltura sostenibile: In Italia, l'agricoltura sostenibile è diventata una priorità per ridurre l'impatto ambientale della produzione agricola. Ciò include l'uso responsabile delle risorse idriche, la riduzione dell'uso di pesticidi e fertilizzanti e la promozione di pratiche agricole che preservino la biodiversità.

Prodotti biologici: Il settore dei prodotti biologici è in crescita in Italia, con sempre più agricoltori che adottano pratiche biologiche per soddisfare la domanda crescente di quei prodotti alimentari da parte dei consumatori consapevoli della questione ecologica.

Filiera corta: In Italia, è in aumento l'interesse per le filiere corte, che collegano direttamente i produttori ai consumatori, riducendo il trasporto e contribuendo a una maggiore sostenibilità ambientale. I mercati contadini e le cooperative agricole sono esempi di iniziative che promuovono la filiera corta.

Etichettatura ambientale: Le normative europee e italiane promuovono l'etichettatura ambientale dei prodotti alimentari, consentendo ai consumatori di fare scelte più informate in base all'impatto sull’ambiente dei prodotti.

Gli obiettivi fissati dall’Europa con la strategia Farm to fork:

  • promuovere una significativa riduzione dell’uso dei pesticidi. Al riguardo la strategia propone di “ridurre, entro il 2030, l’uso e il rischio complessivo dei pesticidi chimici del 50%. Questo obiettivo potrà essere raggiunto anche grazie ad un potenziamento delle attività agricole realizzate mediante le prassi produttive di difesa integrata;
  • contribuire all’obiettivo di riduzione di almeno il 50% delle perdite di nutrienti garantendo, al contempo, che non si verifichino significativi fenomeni di deterioramento della fertilità del suolo. In questo senso è obiettivo della strategia determinare una riduzione dell’uso dei fertilizzanti di almeno il 20% entro il 2030;
  • contrastare l’uso eccessivo e inadeguato degli antimicrobici nell’assistenza sanitaria umana e animale. Al riguardo la Commissione intraprenderà azioni volte a ridurre del 50% le vendite complessive nell’UE di antimicrobici per gli animali da allevamento e per l’acquacoltura entro il 2030;
  • rafforzare la fiducia dei consumatori e sostenere l’offerta e la domanda di prodotti biologici attraverso la realizzazione di campagne promozionali e mediante la promozione degli appalti pubblici verdi. Questa iniziativa intende contribuire a raggiungere l’obiettivo che almeno il 25% della superficie agricola dell’UE sia investita ad agricoltura biologica entro il 2030. Anche in questo contesto solo politiche pubbliche mirate possono consentire il raggiungimento degli obiettivi. Incentivi unicamente indirizzati a sostenere il cambiamento e il sostegno alle filiere corte e all’agricoltura biologica possono essere la leva per ridurre il divario dei costi di produzione che, in un contesto di difficoltà economica, possono essere il vero freno alla trasformazione del settore in direzione di una maggior sostenibilità ambientale.

Le infrastrutture del Mezzogiorno

È necessario ipotizzare una nuova stagione per le politiche del Mezzogiorno. Il modello liberista, a cui è stato affidato la soluzione di tutti i problemi, ha fallito dimostrando che il mercato non è in grado di risolvere i grandi problemi dettati dagli squilibri economici e sociali.

Verifichiamo quotidianamente gli effetti disastrosi di una cultura politica regressiva che delegava alla parte forte del Paese il processo d’integrazione italiano nel contesto europeo e globale. La “strumentazione” a disposizione del Mezzogiorno si è arricchita, sulla carta, con il vincolo agli investimenti, agli incentivi per l’occupazione e ai provvedimenti volti a favorire le pari opportunità generazionali e di genere, nonché l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Nella realizzazione pratica, purtroppo, tali impegni non sono stati realizzati.

Il cambio di sistema energetico in direzione delle rinnovabili può favorire un nuovo protagonismo meridionale nella produzione energetica. L’esigenza di una nuova concezione dell’intervento pubblico può fare da lievito a una nuova concezione dell’intervento nel Mezzogiorno.

In questo senso, diventa dirimente una nuova strategia per la rete infrastrutturale. Per qualificare una nuova stagione d’investimenti è necessario dare risposta al grande tema della mobilità e della comunicazione, sia all’interno dell’area meridionale, sia di collegamento con i grandi attraversamenti all’interno della Ue. Condizione questa necessaria affinché il Mezzogiorno incroci la domanda globale nel campo delle grandi reti logistiche mondiali.

È un grave errore, pertanto, considerare la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina come l’elemento strategico della modernizzazione infrastrutturale del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno ha bisogno di grandi reti merci e passeggeri, di connessioni trasversali Est-Ovest, in grado di togliere dall’isolamento fisico una parte cospicua della popolazione meridionale, che vive ed opera nelle aree interne, e di una vera specializzazione del sistema portuale, assieme alla concreta utilizzazione delle aree retroportuali per l’espansione della logistica e delle attività industriali.

Politiche che vanno modulate in una cornice di forte connessione delle aree territoriali interessate, per sviluppare una competizione di sistema. In questa traccia si forniscono, per punti, alcuni elementi su cui avviare una discussione con categorie e territori per la costruzione di una proposta comune su Infrastrutture e Sud:

  • costruire una premessa generale che miri a un rilancio complessivo del Sud su più assets: logistica e trasporti, rigenerazione urbana e ambientale, politiche industriali, settore agroalimentare e agroindustria, energie rinnovabili, ricerca e innovazione, servizi pubblici locali.
  • valorizzare come punto di partenza della discussione la strategia di rafforzamento e completamento delle reti infrastrutturali, portuali, logistiche ed energetiche, in quanto sostegno indispensabile per il rilancio del sistema produttivo del sud.
  • la rete portuale del Sud deve essere alla base di un progetto che pone l’Italia come piattaforma sul Mediterraneo, in grado di interconnettere i traffici marittimi europei, asiatici e nordafricani. Diventa cruciale attivare lo strumento della Zes al servizio di una chiara politica industriale e di sviluppo, nonostante il rilevante depotenziamento stabilito dal decreto legge 124/2023 che – oltre ad operare una fortissima centralizzazione a danno della dimensione territoriale – rischia di comprometterne funzionalità ed efficacia. Va invece attuata la grande intuizione della realizzazione delle cinque aree logistiche integrate: Ali campana, Sistema pugliese-lucano, Polo logistico di Gioia Tauro, Quadrante della Sicilia occidentale; Quadrante della Sicilia Orientale. Si tratta, con le prime tre aree (che fanno riferimento ai quattro sistemi portuali di Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro), di rendere operativa e funzionale una prima interconnessione portuale a livello di Mezzogiorno continentale.
  • Accelerare la realizzazione del corridoio ferroviario AVR Napoli-Bari, in quanto fattore indispensabile per realizzare il concreto vantaggio competitivo legato alla connessione tra Tirreno e Adriatico e allo sviluppo dell’intermodalità delle aree retroportuali. In questo corridoio ferroviario sono previste dodici stazioni tra Irpinia, Sannio e le Murge, uno strumento per rivitalizzare queste aree interne interconnettendole e rendendole funzionali a un disegno complessivo di rilancio.
  • Nel quadro complessivo di realizzazione dei quattro corridoi ferroviari TEN T, per il sistema ferroviario è determinante il superamento dei colli di bottiglia lungo la dorsale adriatica rappresentata dalla Termoli-Lesina, dando impulso alla fase di realizzazione dell’AV/AC della linea ferroviaria Adriatica, accelerando la tempistica di realizzazione dell’AV Salerno-Reggio Calabria con il collegamento del porto di Gioia Tauro al sistema ferroviario Taranto-Bari. Va poi raccordata la dorsale Tirrenica alla dorsale Adriatica mediana, attraverso il collegamento veloce con AVR tra Salerno, la Basilicata e la Calabria con il sistema ferroviario pugliese, dando una definitiva soluzione al collegamento dei porti e dei retroporti del Mezzogiorno. Inoltre, occorre completare la Messina-Catania-Palermo e il raddoppio della MessinaCatania-Siracusa. Non è solo necessario creare un sistema di rete Ten T integrato, ma anche affrontare le criticità tecniche che, ad oggi, determinano una sconnessione nel sistema ferroviario del Sud.
  • Per realizzare questo investimento di sistema sulle reti infrastrutturali e logistiche al Sud, è determinante la capacità programmatoria dello Stato, con una governance centrale che coordini l’attività delle istituzioni regionali e locali, assieme ai principali players (gruppo Rfi, Anas, Autorità di sistema portuale), per un utilizzo efficace delle risorse finanziarie allocate nei Contratti di programma, nel Fondo Sviluppo e Coesione (FSC), nel PNRR.

I porti nel Mezzogiorno – Palermo-Augusta, Messina, Gioia Tauro, Taranto, Bari, Napoli –, individuati come sede dell’Autorità, fanno parte della rete centrale Trans-europea e sono ritenuti strategici ai fini degli obiettivi della rete europea dei trasporti.

È prioritario in questo contesto riuscire a connettere i porti con le ferrovie e le autostrade, attraverso la realizzazione delle opere stradali di ultimo miglio e ferroviarie di ultimo e penultimo miglio. Come anche dotare il sistema portuale di una più efficace digitalizzazione ed ICT, accompagnandolo attraverso una politica di tutela dell’ambiente dalle varie fonti d’inquinamento.

Stanno prendendo corpo la realizzazione delle cinque aree logistiche integrate, che hanno come obiettivo la messa a sistema della portualità del Mezzogiorno, delineando la vocazione logistica e produttiva dei territori interessati. In tale ambito una forte spinta per l’insediamento delle attività industriali potrebbe venire attraverso una oculata utilizzazione della Zes nelle aree portuali. Cosa che non si ravvisa in alcun modo nelle scelte compiute dal governo con il c.d. “Decreto Mezzogiorno”

Napoli ha vocazione turistica, ma anche i porti siciliani e pugliesi potrebbero ampliare la loro capacità attrattiva del turismo legato alle crociere. Salerno è uno dei porti più efficienti e dinamici d’Europa, ma vanno accelerate la realizzazione dei collegamenti ferroviari e stradali.

La specializzazione del sistema portuale della Sicilia occidentale – con Palermo, Termini Imerese,

Porto Empedocle e Trapani – è quella crocieristica e Ro Ro, con la specificazione del retroporto di Termini Imerese e la sua zona industriale (area di crisi complessa). La specializzazione del sistema portuale della Sicilia orientale, con Catania e Augusta, è legato ai grandi impianti di raffinazione presenti ed ai traffici Ro Ro di scambio con il resto del Paese e, in parte minore, con altri Paesi del Mediterraneo. Mentre, per quanto concerne i porti di Messina, Villa San Giovanni, Milazzo, Tremestieri e Reggio Calabria, resta da definire la loro vocazione economica.

Nel porto di Gioia Tauro l’attività prevalente è concentrata sul transhipment di container, mentre i porti di Crotone, Corigliano Calabro, Taureana di Palmi, Vibo Valentia hanno una valenza regionale. Strategica per la crescita del porto di Gioia Tauro è la realizzazione della trasversale ferroviaria di connessione tra il corridoio tirrenico ed adriatico rappresentata dalla Gioia Tauro-Taranto-Brindisi.

La portualità pugliese – con Bari, Brindisi, Manfredonia, Barletta e Monopoli – è orientata ad intercettare i flussi Ro Ro, mentre altre specializzazioni, come quella di Brindisi, dipendono dalla realtà industriale e dalle scelte di politica industriale e d’investimento. Di grande importanza, in questo senso, il protocollo d’intesa con l’Autorità portuale del Mar Tirreno Centrale, per l’avvio di un percorso condiviso tra le due realtà interconnesse da attività economiche e produttive in territorio campano e pugliese. Lo scopo è quello di realizzare un’area logistica integrata, che sarà ulteriormente rafforzata con la costruzione della nuova linea Av/Ac Napoli-Bari. Di estrema importanza per il raccordo della portualità pugliese al corridoio Adriatico è la realizzazione della Termoli-Lesina, al fine di superare l’attuale collo di bottiglia a binario unico. Il porto di Taranto costituisce un caso a sé, per anni il porto principale italiano in termini di volumi, oggi fortemente in calo in ragione della crisi dell’acciaieria. Sull’insieme di questi interventi è fondamentale ristabilire il ruolo partenariale delle forze economico – sociali, quale elemento indispensabile per la sorveglianza e il monitoraggio degli investimenti.

• Bonifiche e aree di crisi complesse

In Italia ci sono 16.264 siti contaminati, con procedimenti di bonifica in corso di competenza regionale e 42 SIN (siti di interesse nazionale). Sono aree spesso caratterizzate dalla presenza di discariche, impianti chimici e siderurgici, amianto, centrali elettriche, aree portuali, petrolchimici e raffinerie.

Costituiscono una vera emergenza ambientale e sanitaria per i lavoratori e le comunità, sono la causa di eccesso di mortalità, patologie oncologiche, ricoveri ospedalieri e, in alcuni casi, anche di eccessi di malformazioni congenite. Il tema delle bonifiche va affrontato nel rispetto degli obiettivi e delle misure stabiliti dalla strategia europea per la biodiversità al 2030, in un ragionamento sistemico che tenga conto anche del degrado del suolo per uso agricolo (soprattutto per allevamenti e coltivazioni intensivi), della necessità di fermare il proliferare delle discariche abusive, dell’impermeabilizzazione del suolo e dell’espansione urbana e di sostenere il ripristino degli ecosistemi degradati, di contrastare l’inquinamento e di creare nuova occupazione.

Il principio fondamentale è la conciliazione tra attività economiche e rispetto della natura. La bonifica di tutte le aree contaminate, a partire da quelle che coincidono con le are di crisi industriale, è una priorità innanzitutto per rimuovere il rischio ecologico e sanitario. Investire in queste aree rappresenta però anche una grande opportunità di rilancio degli investimenti privati e dell’occupazione, per bloccare il consumo di suolo e promuovere la rigenerazione urbana. Le aree contaminate, se sottoposte a bonifica e riqualificazione, possono rappresentare una risorsa importante per il Paese, poiché generalmente già dotate di infrastrutture (porti, ferrovia, energia, rete viaria, servizi ambientali, ecc.), con un vantaggio in termini di oneri di urbanizzazione e un’opportunità per il reinsediamento produttivo, per riaattivare le potenzialità del tessuto economico e sociale interessato.

Bonificare e rendere disponibili questi siti per nuovi insediamenti produttivi, in particolare le aree dei grandi poli industriali del Mezzogiorno, al centro del Mediterraneo, è un’occasione straordinaria di sviluppo per il Paese. Spesso i programmi di investimento per la riqualificazione industriale, ma anche la rigenerazione urbana, sono bloccati proprio a causa dei ritardi nelle bonifiche. Insieme all'accelerazione delle procedure di bonifica, servono interventi di riconversione ecologica e rilancio delle attività industriali già esistenti, o investimenti per nuove attività produttive sostenibili, per evitare che prosegua la contaminazione delle matrici ambientali e per creare le condizioni per una continuità e un incremento dei livelli occupazionali.

Il tema delle bonifiche è strettamente connesso all'obiettivo di esercitare una governance multilivello ed avanzare proposte di programmazione negoziata per una nuova politica industriale e di sviluppo sostenibile, anche in relazione a molte aree di crisi industriale. Spesso su queste aree insistono più strumenti e risorse (CIC, SIN, Porti, ZES, Città metropolitane, Aree Interne...), che vanno messi a fattore comune e indirizzati in un unico progetto, in cui la partecipazione delle parti sociali e delle comunità è un elemento fondamentale.

Gli strumenti per attivare le politiche industriali

Lo sviluppo di politiche industriali nel pieno della transizione ecologica e di quella digitale richiede un processo complesso e ponderato, che renda chiari gli obiettivi e verifichi i risultati per convalidarne l’efficacia.

  • Ruolo pubblico: il governo di un processo così profondo, con impatti sui sistemi produttivi e sul lavoro, non può essere lasciato al mercato. Occorre un nuovo protagonismo dello Stato che si deve dotare di tutti gli strumenti per programmare, indirizzare e coordinare i processi di sviluppo e di investimento. Questo ruolo non è solo difensivo rispetto agli impatti che tale processo sta generando nel nostro Paese, ma anche finalizzato a costruire o a riconvertire nuovi ambiti produttivi e filiere industriali, strategiche per il futuro del Paese e per la creazione di posti di lavoro (mobilità elettrica, fonti rinnovabili, trasformazione green per il civile e il trasporto pubblico locale, trasporto su ferro anziché su gomma per persone e merci, robotica e elettronica innovativa). Le due leve – risorse pubbliche e incentivi selettivi – possono essere coadiuvate dalla finanza. Il sistema del credito potrebbe abbandonare le pure logiche di ricerca degli extraprofitti e riscoprire il ruolo “di servizio” all’economia reale affidatogli dalla Costituzione, se le banche aderissero alla strategia di moltiplicazione degli investimenti in innovazione e sostenibilità del tessuto economico-produttivo, anche tramite l’indirizzo degli attori istituzionali, a partire da CDP, connettendo finanza pubblica e privata. Uno stato, quindi, imprenditore e innovatore. La nostra proposta dell'Agenzia nazionale dello sviluppo sostenibile va in questa direzione. Questo nuovo ruolo dello Stato deve basarsi anche su politiche finanziarie costruite con la partecipazione del “capitale paziente” e del risparmio. Un’Agenzia quindi che agisca anche da fondo sovrano, capace di finalizzare i fondi pensione e l'ingente risparmio privato: per favorire lo sviluppo, per acquisire una quota significativa degli assets strategici del Paese, per effettuare investimenti diretti in imprese strategiche di rilevante interesse nazionale. In questo contesto sono presenti due leve straordinarie per attivare il cambiamento necessario ad affrontare le sfide che abbiamo di fronte. La prima riguarda la grande spesa statale rappresentata dalla fornitura di beni e servizi, che equivale a 1/3 della spesa statale, oltre 300 miliardi l'anno. La seconda, una selezione delle imprese da incentivare, sostituendo il meccanismo degli incentivi a pioggia che si limitano a fotografare la situazione esistente, senza intervenire sui diversi livelli di diseguaglianze che il Paese ha prodotto in questi anni. Si tratta quindi di definire innovazioni amministrative condivise con le parti sociali, di utilizzare gli stessi bandi di gara, a partire da tutti gli enti pubblici, per fare evolvere il Paese e sostenere la crescita dimensionale delle imprese, oggi caratterizzata da un nanismo che non ha uguali in nessun paese europeo. Vanno introdotte condizionalità finalizzate a sostenere le imprese – soprattutto quelle piccole e in difficoltà – per interventi di efficientamento energetico, autoproduzione energetica da fonti rinnovabili, economia circolare, decarbonizzazione delle produzioni hard to abate, utilizzo BAT, contratti di acquisto energetico da produttori da fonti rinnovabili. Questi interventi avranno ricadute positive anche in termini di costi di produzione e aumento della produttività. Va superata l’idea sbagliata secondo cui la produttività passi attraverso le basse retribuzioni e l'alto numero delle ore lavorate, che invece determinano l’aumento della disoccupazione, altro punto negativo che caratterizza il nostro mercato. È evidente che va incentivata e promossa una produttività di sistema, che può essere realizzata solo con investimenti in ricerca e innovazione.
    Inoltre, lo Stato deve riappropriarsi anche di un forte ruolo di indirizzo delle grandi partecipate pubbliche (es. ENEL, ENI), con l’obiettivo di adeguare i piani industriali di queste grandi aziende affinché assumano un ruolo guida nella transizione ecologica, in linea con i target di riduzione delle emissioni al 2030 e al 2050, programmando una rapida riduzione delle fonti fossili e promuovendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili.
    Il pubblico deve garantire lo sviluppo delle infrastrutture materiali e immateriali, per assicurare che l’accesso alle nuove opportunità tecnologiche, così come la riduzione dei costi energetici e logistici, sia garantito equamente a tutti i cittadini in tutto il territorio nazionale.
    Giusta transizione, innovazione digitale, riconversioni industriali devono essere accompagnate da piani e strumenti che garantiscano tutela sociale, sostegno al reddito, riqualificazione e formazione delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti nei processi di riconversione. Per questo bisogna che si istituisca un fondo nazionale che accompagni e sostenga le transizioni e le riconversioni industriali. Il fondo dovrà prevedere investimenti di sostegno al reddito, di formazione, di aggiornamento delle competenze per le lavoratrici e i lavoratori, con l’obiettivo di “non lasciare indietro nessuno”.
  • Regolamentazione efficace: creare regolamentazioni industriali che promuovano un ambiente sano per le imprese, senza compromettere l'ambiente o la sicurezza dei lavoratori. Le regole dovrebbero essere chiare trasparenti ed equamente applicate.
  • Promozione dell'innovazione: l'innovazione è un motore chiave dell'industria. Sostenere la ricerca di base e l'innovazione – attraverso investimenti in ricerca e sviluppo, collaborazioni tra industria e università, promozione dell'adozione di tecnologie avanzate – è decisivo. Si può inoltre pensare, sulla scorta dell'esperienza della Germania con il Fraunhofer, di realizzare all’interno dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo, una rete di centri in grado di sviluppare e integrare ricerca di base e ricerca applicata per l’innovazione industriale, in funzione proprio della transizione digitale e verde. Il Fraunhofer, infatti, svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo della ricerca per le piccole e medie imprese tedesche, che altrimenti avrebbero difficoltà a portare avanti direttrici di sviluppo tecnologico. Un problema che abbiamo anche nel nostro Paese.
  • Internazionalizzazione: va favorita l’espansione internazionale delle imprese, facilitando l’accesso ai mercati globali e promuovendo l’export.
  • Monitoraggio e valutazione: serve implementare un robusto sistema di monitoraggio e valutazione per misurare i progressi compiuti e apportare le modifiche necessarie a raggiungere gli obiettivi.
  • Coordinamento istituzionale multilivello: è indispensabile un coordinamento tra le varie istituzioni (Stato, Regioni ed Enti Locali), per evitare conflitti e interventi non coerenti con gli obbiettivi. La parcellizzazione delle competenze ha impedito lo sviluppo di politiche industriali efficaci.

In questo contesto è necessario, infine, che gli strumenti disponibili siano indirizzati per ridurre le diseguaglianze presenti in italia, considerando che il settore industriale è concentrato prevalentemente nel nord del Paese. In quest’ambito, politiche industriali che agevolino processi di reshoring e un corretto indirizzo dei fondi IPCEI rappresentano una grande opportunità per ridurre le diseguaglianze industriali che si sono acuite negli ultimi 20 anni.

Per questo risulta cruciale anche sviluppare le infrastrutture, strumento di attivazione degli insediamenti industriali, in coerenza con gli obbiettivi da perseguire. L’idea della spesa storica o degli incentivi a pioggia ha contribuito in questi anni, nella migliore delle ipotesi, a fotografare e cristallizzare la situazione esistente, nella peggiore, ad aggravare il divario di sviluppo che spezza in due il Paese.