Il progetto governativo di riforma della giustizia del lavoro contenuto nel disegno di legge n. 1167 attualmente in discussione al Senato (ex C 1441-quater) non ha pretese né caratteristiche di sistematicità ed affronta, invece, singoli istituti, tuttavia di notevole importanza, e non soltanto di diritto processuale in senso stretto.

Il diritto del lavoro italiano, soprattutto negli ultimi 10-15 anni, è stato oggetto di molteplici riforme nonché di "proclami" di riforma, rimasti per lo più sulla carta. Ripetute modifiche dell'assetto normativo hanno seguito l'alternarsi al governo degli schieramenti politici opposti, con un paradossale effetto d'instabilità e d'incertezza delle regole, e con un innalzamento vertiginoso del tasso di disapplicazione delle norme. L'instabilità delle regole, unita alla loro caratterizzazione politica (valga per tutti l'esempio della vicenda di alcune disposizioni della c.d. legge Biagi, prima abrogate, poi riportate in vita) ha prodotto un'alterazione del dibattito sui temi del lavoro, concentrato sul valore simbolico che alcuni di questi temi hanno assunto nell'agone politico.L'esempio più significativo è forse quello dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori e in generale della disciplina dei licenziamenti. Qui, la semplificazione dei ragionamenti ha ridotto l'art. 18 ad un simbolo, usato da due opposti fronti politici: la reintegrazione come vessillo di coloro che vogliono tutelare i lavoratori contro coloro che si preoccupano solo dell'interesse delle imprese. Purtroppo ben pochi si sono preoccupati di affrontare il vero e serio problema posto dalla disciplina della reintegrazione, mettendo in luce che molti effetti distorsivi non derivano dall'art. 18 in quanto tale, ma dai tempi del processo. Una cosa sarebbe una condanna del datore di lavoro che intervenisse ad esempio dopo 5-6 mesi dal licenziamento e con un risarcimento determinato su questa misura temporale, altra cosa è una condanna che arriva dopo anni, quando il lavoratore, che (ci si augura) ha trovato un altro impiego, ha perso ogni interesse alla reintegrazione, ma l'impresa si trova a dover risarcire un danno di dimensione spesso insostenibile.Se anziché restare prigionieri delle logiche di uno scontro tutto ideologico sui temi del lavoro, guardassimo il nostro sistema di regole lavoristiche con occhi non miopi né alterati dal bisogno di trasformare le nostre parole in semplicistiche comunicazioni mediatiche, allora risulterebbe chiaro che occorre abbandonare la sterile discussione sulle riforme degli istituti di fondo del diritto del lavoro, per concentrarsi invece sulle politiche effettive del lavoro, riconoscendo che, scontata la necessità di eliminare dall'ordinamento le norme inutili o palesemente ingiuste, l'effettività delle norme costituisce il cuore della questione lavorista.E' evidente che in generale il nostro sistema giuridico è ormai molto simile a quello degli altri Paesi europei ma che, nello stesso tempo, l'Italia è il Paese dove le regole sono per lo più disattese: cosicché la produzione normativa risulta al tempo stesso cartacea e produttiva di inutili dilemmi interpretativi. L'ineffettività, dalle nostre parti, è eclatante: basti pensare alla diffusione del lavoro sommerso e all'incidenza degli infortuni sul lavoro, nonostante regole rigidissime pressoché identiche a quelle del resto d'Europa.La verità è che l'Italia non investe adeguate risorse su due versanti.Il primo - più ovvio - è quello dei controlli e della reale applicazione delle sanzioni. Se i controlli sull'applicazione delle leggi fossero diffusi ed efficaci, forse perfino il dibattito sulla tutela dei lavoratori parasubordinati perderebbe gran parte del suo rilievo, giacché i controlli potrebbero far rientrare sotto la tutela della subordinazione quasi tutte le collaborazioni che necessitano per davvero di quella tutela.Il secondo versante è più complesso ed impegnativo ed investe gli aspetti culturali del nostro Paese, nel quale si è diffusa a tutti i livelli una pericolosa miopia che comprende anche il mondo del lavoro. Si è diffusa, cioè, l'abitudine a non alzare lo sguardo oltre l'oggi o al massimo il domani, in una sorta di generalizzato mordi-e-fuggi che impedisce di percepire gli effetti alla lunga disastrosi di certi comportamenti: il mito del guadagno facile ed immediato ci ha allontanati dalle possibilità di costruzione di un futuro affidabile, in grado di reggere l'impatto con un mondo sempre più globalizzato. Invece nell'economia globale, soprattutto in questo periodo di crisi, le aziende che possono aspirare a vincere la competizione sono quelle che investono sulla ricerca e sull'innovazione e per le quali i lavoratori, con la loro professionalità ed esperienza, rappresentano una risorsa preziosa.È dunque necessario smettere di rincorrere futuribili riforme destinate solo ad accendere dibattiti simbolici e prive di ogni effetto reale. Ci si astenga dal proporsi di intervenire sulle strutture di fondo del diritto del lavoro, e ci si concentri invece sulle azioni concrete dirette al alzare, in ogni luogo del Paese, il tasso di effettività delle normative: combattere seriamente la precarietà, senza che la flessibilità si traduca in uno sconsiderato usa e getta della forza lavoro, potenziare i centri per l'impiego, gli ispettorati del lavoro, le azioni di contrasto all'economia irregolare e al lavoro nero, i meccanismi di formazione, di sostegno al reddito nelle imprese in crisi, di incentivo allo sviluppo.E' su queste basi che si deve fare opposizione agli interventi governativi, contrastando le misure ancora legate a vecchie logiche liberiste ormai smentite dalla stessa economia e che tendono ad una ulteriore e deleteria destrutturazione del diritto del lavoro. Un'opposizione che sveli tutti gli effetti negativi delle politiche governative e che non si affanni a rincorrere la maggioranza sul suo stesso terreno.Nel momento economico così difficile come quello che stiamo attraversando è necessario, piuttosto, denunciare come il Governo ritardi nell'adozione di tutte le misure urgenti rese necessarie dalla gravissima crisi mondiale a partire dal sostegno dei redditi dei lavoratori - in particolare di quelli esclusi dai tradizionali ammortizzatori sociali - e dagli interventi per la sopravvivenza del sistema imprenditoriale.Tutto questo appare ancora più urgente dopo l'accordo sulla riforma del sistema contrattuale che, per la sua natura e data la mancata adesione della CGIL, rischia di produrre una ulteriore disarticolazione delle relazioni contrattuali.Da queste argomentazioni nasce il nostro invito a discutere prima di tutto delle misure necessarie per rendere effettivo l'attuale sistema di tutele del lavoro (dai servizi per l'impiego, al generale sostegno del reddito nei periodi di non lavoro, dai controlli sull'applicazione delle norme in tema di sicurezza, al processo del lavoro la cui lentezza finisce per rendere vana ogni previsione di diritti) e su questi temi incalzare Governo e maggioranza parlamentare.Gennaio 2009Roberta BORTONE -Università "la Sapienza" di RomaDonata GOTTARDI-Università di VeronaLuigi MARIUCCI-Università "Ca' Foscari" di VeneziaGian Guido BALANDI-Università di FerraraMaria Vittoria BALLESTRERO-Università di GenovaLauralba BELLARDI-Università di BariFranca BORGOGELLI-Università di SienaLaura CALAFA'-Università di VeronaBruno CARUSO-Università di CataniaPasquale CHIECO-Università di BariLorenzo GAETA-Università di SienaOronzo MAZZOTTA-Università di PisaAdalberto PERULLI-Università "Ca' Foscari" di VeneziaUmberto ROMAGNOLI-Università di BolognaMario RUSCIANO-Università "Federico II" di NapoliFranco SCARPELLI-Università Statale di Milano-BicoccaLorenzo ZOPPOLI-Università "Federico II" di Napoli

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