La lettura della sentenza n. 192/2024, relativa ai giudizi di legittimità costituzionale della legge n. 86/2024, fornisce una puntuale declinazione delle ragioni che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare illegittime ampie parti del provvedimento legislativo, e che erano state anticipate dal comunicato diffuso il mese scorso dalla stessa Consulta.
Molte di queste motivazioni – come segnalato nella precedente nota del 18 novembre – confermano e rafforzano le ragioni che hanno portato la nostra Organizzazione a schierarsi fin dall’inizio contro un disegno politico che mira a stravolgere la forma di Stato e gli stessi principi fondamentali della Costituzione.

Nel rinviarvi al testo della sentenza per una più ampia e puntuale disamina, si ritiene utile evidenziare alcuni nodi sostanziali che supportano la nostra battaglia politica e culturale contro il disegno secessionista del Governo e che rafforzano la convinzione che il referendum per l’abrogazione totale della legge Calderoli sia tuttora necessario per sgombrare definitivamente il campo da ogni atto normativo che – pur costituzionalmente legittimo nella forma – potrebbe comunque avere pesanti conseguenze sulla coesione sociale e sulle prospettive di sviluppo economico e produttivo del Paese.
Forma di Stato e regionalismo
La Corte premette alle sue numerose valutazioni sull’articolato un necessario richiamo alla forma di Stato delineata dalla Costituzione e alla configurazione che, in questo quadro, ha il regionalismo.
In particolare, si sottolinea che quest’ultimo non può che essere subordinato ai superiori principi dell’unità e indivisibilità della Repubblica; dell’unicità della rappresentanza politica che è nazionale e risiede nel Parlamento, dell’esclusione di qualsiasi differenziazione tra Regioni che metta in discussione la solidarietà tra le stesse e lo Stato, l’unità giuridica ed economica della Repubblica, l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti cittadini nel godimento dei diritti e nell’effettiva garanzia dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.
Il regionalismo, sottolinea la Corte, deve essere esclusivamente “cooperativo”, dando attuazione alla leale collaborazione con lo Stato, pena – dice la Consulta – l’indebolimento della coesione sociale e dell’unità nazionale che metterebbe in crisi la stessa tenuta democratica del Paese.
Specifiche funzioni, non intere materie
Da questo assunto sulla forma di Stato e l’unità della Repubblica deriva che la differenziazione richiamata dall’art. 116, terzo comma, può esplicitarsi solo nel rispetto del principio di sussidiarietà e che, quindi, l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” a una Regione – in ogni caso da motivare rigorosamente e puntualmente – non può che riferirsi a specifiche e circoscritte funzioni legislative e amministrative, e non a intere materie o ambiti di materie; e che tale attribuzione debba, in ogni caso, essere valutata in base a tre criteri: efficacia/efficienza, equità e responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti della popolazione interessata.
Materie la cui devoluzione è difficilmente giustificabile
Alla luce di ciò – e della conseguente necessità di giustificare l’eventuale trasferimento nel rispetto del richiamato principio di sussidiarietà verticale – la Corte ritiene “difficilmente giustificabile” l’attribuzione alle Regioni della competenza su alcune delle materie indicate nell’art. 116, terzo comma, anche alla luce dell’evoluzione consolidata del diritto dell’Unione Europea. La Corte richiama particolare attenzione su: commercio con l’estero e con Stati membri dell’UE; tutela dell’ambiente; produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e navigazione; professioni (in particolare ordinistiche); ordinamento della comunicazione; norme generali sull’istruzione. Su quest’ultima, la Corte – a supporto della non giustificabile differenziazione – richiama la “valenza necessariamente generale e unitaria” di questa materia, consolidatasi negli anni nella stessa giurisprudenza costituzionale, con particolare riferimento alla “configurazione generale dei cicli di istruzione e i programmi di base”.
I LEP non sono una questione tecnica e non sono i “minimi”
La Corte ricorda che i LEP “implicano una delicata scelta politica, perché si tratta di bilanciare uguaglianza dei privati e autonomia regionale, diritti e esigenze finanziarie (…), di decidere i livelli delle prestazioni relative a diritti civili e sociali con le risorse necessarie per garantire uno standard uniforme delle stesse prestazioni su tutto il territorio nazionale”.
E questo non può essere fatto con Dpcm o con decreti legislativi attuativi di una delega “in bianco”, come quella dell’art. 3 della legge in questione, in cui non siano indicati chiaramente precisi criteri direttivi, riferiti a ciascuna materia (data l’eterogeneità delle materie devolvibili).
Ai LEP, inoltre, la sentenza dedica un secondo, decisivo passaggio quando – richiamando i lavori parlamentari che ne hanno portato l’introduzione nella Carta – precisa che la formulazione attuale (livelli essenziali delle prestazioni) sostituì una precedente ipotesi (livelli minimi di garanzia) proprio a chiarire che i LEP hanno l’obiettivo di assicurare uno standard di tutela superiore al minimo, con “l’orizzonte concettuale dell’eguaglianza” (come indicato nell’art. 3, comma 2 della Costituzione), e che gli enti territoriali devono disporre delle risorse necessarie al raggiungimento di tale orizzonte, anche attraverso il fondo perequativo.
Il Parlamento deve avere un ruolo centrale
Se ogni trasferimento di funzioni deve avvenire nel rispetto dell’unità della Repubblica ed è al Parlamento, sede della sovranità nazionale, che spetta la sua tutela, ne deriva che le Camere non possono limitarsi a un “prendere e lasciare” sulle leggi di recepimento delle intese, ma devono poter valutarne e determinarne i contenuti, trattandosi di procedimenti che vanno a incidere sul riparto costituzionale delle competenze attribuite ai differenti livelli istituzionali e sulla gestione delle risorse pubbliche.
La spesa storica cristallizza
Sui profili finanziari della legge, la Corte – oltre a richiamare il necessario reperimento di risorse aggiuntive per garantire i LEP – esclude esplicitamente il riferimento alla spesa storica in ragione del principio di maggiore efficienza che il trasferimento di funzioni dovrebbe comportare, e che va assunto come parametro per valutare la migliore allocazione delle funzioni. Né la spesa storica è utilizzabile come criterio nella definizione della compartecipazione, perché potrebbe cristallizzare anche le eventuali inefficienze esistenti al momento del raggiungimento dell’intesa.
La previsione dell’allineamento annuale della compartecipazione al gettito dei tributi erariali da parte delle Regioni, infine, viene censurata in quanto viola il principio di responsabilità del decisore pubblico, che sarebbe sollevato dalle conseguenze di inefficienza nell’esercizio delle funzioni trasferite.
La sentenza, dunque, fissa importanti paletti nell’attuazione dell’art. 116, terzo comma, nel rispetto dei principi e valori fondamentali della Carta, dichiara costituzionalmente illegittime diverse disposizioni contenute nella legge Calderoli, ma non censura (né potrebbe perché non è suo compito istituzionale) il disegno politico che i proponenti continueranno a perseguire. Per questa censura è necessario che sia la popolazione a esprimersi attraverso l’istituto di partecipazione democratica che la Costituzione stessa garantisce: il referendum abrogativo.
Aspetteremo e ci rimetteremo alle decisioni della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, davanti alle quali difenderemo le nostre ragioni, confidando che sia data la possibilità a cittadine e cittadini di esprimersi definitivamente sul disegno secessionista del Governo.