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Nei giorni scorsi, il governo britannico di Boris Johnson ha deciso (con il voto favorevole della Camera dei Comuni) di provare a modificare unilateralmente l’accordo con l’Unione Europea rispetto allo status del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda.
Come noto, questo punto era stato cruciale nell’accordo di “separazione” tra UK e UE; si era convenuto che il confine rimanesse – attraverso il meccanismo di backstop – come definito dal “Good Friday Agreement” del 1998: niente frontiera rigida, assenza di dazi e pesanti controlli doganali, giurisdizione della Corte di Giustizia europea per dirimere eventuali controversie commerciali. Questo ha permesso tra l’altro, oltre al libero scambio di merci, l’agevolazione del lavoro transfrontaliero – soprattutto nei settori agroalimentari, industriali e dei servizi – per migliaia e migliaia di persone.
Con la propria azione unilaterale, il governo britannico rischia non solo di far saltare l’accordo commerciale con l’UE – e di scatenare una “guerra” fatta di procedure di infrazione, dazi doganali, messe in mora, rialzo dei prezzi e inagibilità per aziende che operano a scavallo del confine: rischia, soprattutto, di annullare in un colpo solo lo spirito di quell’accordo che nel 1998 avviò una lunghissima fase di distensione nel conflitto nord-irlandese.
Il dato politico è infatti evidente: Boris Johnson vuole dare soddisfazione politico/economica alle frange lealiste più estreme, al rischio di innescare motivi per eventuali reazioni da parte repubblicana. In un contesto in cui il DUP (partito unionista) e i Brexiters più estremi sostengono il governo Johnson ma – solo qualche settimana fa – in Irlanda del Nord lo Sinn Fein è diventato per la prima volta nella storia il primo partito in parlamento.
I sindacati britannici e nord-irlandesi (TUC e NIC-ICTU) hanno immediatamente condannato questa decisione del premier Johnson. Avendo giocato un ruolo fondamentale nel raggiungere l’accordo di pace del ‘98, i sindacati vedono chiaramente come ogni azione del genere possa minarlo. Congiuntamente hanno sottolineato come quest’azione possa da una parte creare nuove tensioni politiche e, dall’altra, come possa scatenare un aumento dei prezzi delle merci di maggior consumo nell’area – prezzi già in aumento per la concomitanza di tre fattori di crisi: la pandemia, la guerra in Ucraina e gli effetti della Brexit stessa. Al tempo stesso, denunciano con serio allarme il rischio che questa decisione possa mettere a rischio centinaia di aziende e, di conseguenza, migliaia di posti di lavoro nell’area: e pretendono che il governo Johnson torni al tavolo negoziale con l’UE, rispettando gli accordi sottoscritti rispetto al confine nord-irlandese.
L’UE intanto ha avviato immediatamente una procedura di infrazione contro il Regno Unito, ribadendo che non ha alcuna intenzione di rinegoziare quel punto dell’accordo; anche il Parlamento Europeo si è espresso esplicitamente in questo senso, con una nota unitaria dei Gruppi Popolare, S&D e Renew Europe.
Nel corso dell’ETUC taskforce on EU-UK TCA (il gruppo di lavoro dell’ETUC sull’applicazione del Trattato di cooperazione e commercio tra UK e UE), i sindacati britannici e nord-irlandesi hanno ribadito le proprie preoccupazioni, sottolineando però che la decisione del governo Johnson non è ancora in atto, ma dovrà affrontare alcuni passaggi ulteriori (tra i quali il voto alla House of Lords) e che anche nelle fila del Partito Conservatore cresce il dissenso su questo punto: perché anche una parte consistente del mondo imprenditoriale britannico è seriamente in allarme.
TUC e NIC-ITUC propongono dunque di coinvolgere anche il fronte datoriale, per provare a costruire una posizione comune; la taskforce ETUC ha pertanto deciso di avviare contatti immediati con BusinessEurope, al fine di provare a definire uno statement comune che possa essere siglato dalle forze sindacali e datoriali sia europee che britanniche. Per rafforzare la pressione sul governo Johnson, i rappresentati dei sindacati britannici e nordirlandesi hanno proposto di allargare il “fronte” di pressione anche ai sindacati statunitensi e alla Camera di Commercio Americana, sia per i loro interessi diretti nell’area, sia per l’elemento di sensibilizzazione che potrebbero esercitare soprattutto nei confronti del Partito Conservatore.
Nel frattempo, in Italia, è stata presentata dall’Agenzia per la Coesione Territoriale e dal Ministero degli Affari Esteri la “Riserva di Adeguamento alla Brexit” (BAR): Tale fondo, istituito dal Parlamento e dal Consiglio Europeo, prevede oltre 146 milioni di euro per l’Italia ed è destinato a fornire sostegno per contrastare le conseguenze economiche negative della Brexit per piccole e medie imprese, strutture amministrative pubbliche, comunità e organizzazioni private.
Come da regolamento europeo, il fondo sarà destinato ai settori economici colpiti direttamente dalla Brexit, al funzionamento e controllo delle frontiere, alla certificazione dei prodotti commerciali, alla comunicazione e informazione per cittadini e imprese in merito ai propri obblighi e diritti. Nel corso della presentazione, i rappresentanti dell’Agenzia per la Coesione Territoriale hanno dichiarato che – su indicazione del Governo – in Italia i fondi saranno destinati soprattutto a piccole e medie imprese colpite dalla Brexit, nonché a settori delle amministrazioni pubbliche messe in difficoltà dalle nuove procedure conseguenti nelle relazioni con il Regno Unito.