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La condizione occupazionale delle donne in Italia, già drammatica sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, registra ulteriori record negativi a seguito della pandemia: l’analisi dei dati ISTAT, effettuata dalla Fondazione Di Vittorio, rivela che su oltre 23 milioni di occupati le donne restano sotto la soglia dei 10 milioni, con un tasso di occupazione oltre 18 punti percentuali inferiore rispetto a quello maschile. L’indice di disoccupazione sostanziale, nell’analisi della FDV, è più alto tra le donne (18,6%) rispetto agli uomini (16%). Tali dati peggiorano prendendo in considerazione la forza lavoro potenziale, ovvero la platea di non occupate o sottoccupate che potrebbero lavorare ma non rientrano tra i disoccupati perché, non cercando ufficialmente lavoro, risultano inattive (rinuncia al lavoro). Da evidenziare è anche il ritardo con il quale le donne ottengono un contratto a tempo indeterminato rispetto agli uomini, anche a parità di mansione e la quantità di assunzioni a part time, sempre più spesso “involontario”, che rappresentano la forma contrattuale con la quale la maggioranza delle donne accede al lavoro.
In questo quadro merita un’attenzione specifica la condizione delle donne migranti, su cui deve essere rafforzato il processo di piena inclusione sociale e nel mercato del lavoro a partire proprio dal libero accesso a percorsi formativi e dal riconoscimento dei titoli di studio già acquisiti nel paese di origine.
Secondo l’ultimo Rapporto del 2023 World Economic Forum, l’Italia si posiziona al 79° posto tra i Paesi al mondo riguardo alla parità di genere, ma si colloca addirittura al 104° posto nell’indice che registra il divario di genere riferito alla partecipazione economica delle donne.
Nel nostro Paese solo il 28% delle posizioni manageriali sono occupate da donne, che si riduce al 18% se vengono prese in esame le posizioni regolate da un contratto da dirigente. Tra i quadri, le donne sono al 30,4% del totale, il 37% degli under 35 e il 34,3% tra gli under 40.
Una donna su dieci rinuncia al lavoro per dedicarsi all’attività di cura all’interno della famiglia.
La rivoluzione tecnologica legata alla trasformazione industriali e alla transizione ecologica ed energetica non sarà neutra, governare il cambiamento significa anche leggere gli impatti di genere e anticiparne gli effetti. Le stime dicono che nei prossimi anni circa il 65% delle persone cambierà lavoro. Secondo il World Economic Forum nei settori “STEM” il rapporto tra lavori persi e nuovi lavori sarà svantaggioso per le donne: già oggi sono solo il 14% nel cloud computing, il 20% nell'intelligenza artificiale. Ciò si riflette sulla fuga dei cervelli, di gran lunga femminile: le donne tendono ad espatriare più frequentemente (20% in più rispetto agli uomini) e a non fare ritorno (30% in meno rispetto agli uomini).
Il digital gender gap avrà dunque un effetto moltiplicatore rispetto al gender gap in termini di accesso e permanenza nel mercato del lavoro ed accrescerà il divario retributivo. Il divario digitale di genere attiene all'accesso e all'utilizzo ma anche alla partecipazione nella produzione di contenuti, nella definizione della policy, e nella formazione. La bassa partecipazione delle donne allo sviluppo ed alla implementazione del mondo digitale, anche in fase di progettazione dei sistemi algoritmici, comporta peraltro il rischio di rendere quest’ultimo meno aperto, decisamente meno inclusivo, generatore di discriminazione ed ampliamento delle disparità.
I servizi pubblici sono carenti soprattutto al sud e nelle zone rurali del nostro Paese dove, in particolare, le donne vivono condizioni penalizzanti anche a causa della "desertificazione" dei servizi sociali, sempre più concentrati nelle aree urbane e, ovunque, con personale sottodimensionato non in grado quindi di fornire gli adeguati servizi.
Il gender gap è, quindi, ancora tutt’altro che sanato a partire dalle regioni del Mezzogiorno, dove persistono condizioni ancora più penalizzanti per le donne rispetto al resto d’Italia.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sulla carta si pone l’obiettivo di favorire la parità di genere attraverso un incremento sensibile dell’occupazione femminile. In realtà l’ultimo decreto legge sull’attuazione del PNRR cancella definitivamente le clausole di condizionalità, quote e vincoli nei bandi (in primis riservando alle donne il 30% dei posti di lavoro derivanti dai contratti pubblici finanziati dallo stesso Pnrr). Questi obiettivi sono stati poi indeboliti dalle numerose deroghe previste dal legislatore nelle condizionalità dei bandi legati al PNRR.
L’approvazione nel 2019 di una direttiva europea sul Work life balance ha impegnato ad una maggiore attenzione e rispetto di alcuni precetti in essa contenuti a partire da quelli sulla genitorialità condivisa e sull’equilibrio vita privata/professionale di cui troviamo traccia nelle iniziative legislative più recenti di promozione dell’occupazione femminile.
Nella Legge di bilancio 2024 non ci sono gli investimenti necessari per creare lavoro, rafforzare la coesione sociale e contrastare le disuguaglianze a partire dal sistema pubblico e da un Piano straordinario per l’occupazione pubblica, leva fondamentale in particolare per l’occupazione femminile e giovanile.
L’unico incentivo all’occupazione femminile riguarda le madri, rafforzando l’idea che, per questo Governo, l’incremento demografico sia l’unico spazio che le donne possano occupare.
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