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Quasi la metà delle nuove assunzioni che ha riguardato le donne negli ultimi due anni è a tempo parziale (soprattutto part time involontario); secondo i dati Istat il gender pay gap, cioè il divario retributivo di genere, sarebbe circa del 5% ma in realtà è molto più ampio se consideriamo la parte variabile della retribuzione (stimato al 25% nel privato e al 17% nel pubblico). Un divario che sale progressivamente con l’avanzare del percorso di carriera (fino ad arrivare al 43% nei livelli più alti). Non solo, la discrepanza delle retribuzioni aumenta anche con l’aumentare del livello di istruzione: si passa dal 5,4% delle scuole professionali, al 10,4% dei non laureati, al 30,4% tra i laureati e arriva al 46,7% tra coloro che hanno specializzazioni di secondo livello. Criticità che, inevitabilmente, avranno gravi ripercussioni anche dal punto di vista previdenziale. Questo divario è determinato da vari fattori: la precarietà e alla discontinuità lavorativa; carriere più frammentate e discontinue dovendo farsi carico dell’attività di cura (in particolare alla nascita dei figli); gli incentivi sulla produttività spesso legati a criteri sulla presenza; l’addensamento maggiore nelle mansioni e negli inquadramenti più bassi; la presenza nei settori dei servizi e della cura dove è più presente il lavoro povero, con basse retribuzioni, segno di una “svalorizzazione- disconoscimento” sociale del lavoro delle donne. Tutto questo comporta anche difficoltà e discriminazioni nei percorsi di carriera (tetto di cristallo e sticky floor – pavimento appiccicoso). Anche su questo tema, intervento messo in campo dal Governo con la legge di Bilancio, riguarda un temporaneo sgravio contributivo per le donne che hanno due fili – solo per il 2024 – o che ne hanno tre, fino al 2026.
Inoltre, sempre con la Legge di Bilancio viene incrementato, solo per il 2024, il limite dei fringe benefits fino a 1000 euro per tutti i dipendenti e fino a 2000 euro per i lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi o affidati, fiscalmente a carico.
Tale intervento non ha nulla a che vedere con il concetto di “welfare aziendale”, favorisce ancora una volta l’idea che i buoni spesa o il rimborso di bollette possano essere considerati welfare e non salario, perciò in assenza di contribuzione e quindi con un danno previdenziale.
Con questo intervento si evidenzia nuovamente la scarsa attenzione verso il welfare pubblico, la spinta verso un welfare frammentato e privatizzato, che toglie, detassando, risorse al welfare universale per riversarle su prestazioni erogate da soggetti privati, il cui accesso è spesso frutto di contrattazione individuale, senza obblighi per i datori di lavoro, con il dubbio sulla reale esigibilità dell’innovativa preventiva alle RSU, riducendo il ruolo del sindacato e della contrattazione, e lasciando ampi spazi di potenziale discriminazione.
Nonostante la parità salariale sia prevista per legge, il Gender pay gap, in Italia come in Europa, è un fenomeno persistente: per contrastarlo si sta lavorando ad una Direttiva sulla Trasparenza salariale - già approvata dal Parlamento europeo e ora al vaglio del Consiglio- che serva ad evidenziare i meccanismi che producono le discriminazioni retributive e a promuovere una stessa paga per lo stesso lavoro a parità di livello e condizioni. Dal punto di vista normativo internazionale resta fondamentale rafforzare l’applicazione delle convenzioni OIL sulla Parità di Remunerazione (n°100) e sulla Discriminazione in occupazione (n°111).
In Italia le attuali norme sulla Certificazione della parità di genere (Legge 162/2021, norma Uni 125 del 2022, decreto interministeriale 29 marzo 2022):
- introducono un punteggio premiale nella valutazione di progetti e bandi di gara e agevolazioni contributive alle aziende che abbiano ottenuto la Certificazione;
- riducono a oltre 50 dipendenti il target delle aziende tenute a redigere il Rapporto sulla situazione del personale (già previsto nel Codice delle Pari Opportunità certifica carriere, retribuzioni, ricorso a prepensionamenti, pensionamenti, Cig e licenziamenti);
- estendono la nozione di discriminazione anche al momento della selezione del personale e all’organizzazione del lavoro nei modi e nei tempi;
- estendono il criterio dell’equilibrio di genere nella composizione dei CdA, già previsto per le società quotate, anche alle società non quotate, controllate da pubbliche amministrazioni.
Molte di queste misure rispondono a richieste della CGIL.
Nonostante l’indubbio valore politico del provvedimento che cerca di intervenire per contrastare le disparità che penalizzano il lavoro delle donne, permangono alcuni limiti da superare: è necessario prevedere l’obbligatorietà e le relative sanzioni; non c’è un esplicito riferimento alla contrattazione; la certificazione avviene solo nel rapporto tra impresa ed ente certificatore, mentre noi riteniamo che il coinvolgimento di Rsu/Rsa/Rls sia un requisito fondamentale; la discriminazione diretta e indiretta va comunque agita in sede legale con tutti i relativi costi e difficoltà; manca, a livello Governativo, uno strumento per l’elaborazione dei dati. La Cgil ritiene, inoltre, che gli indicatori individuati dalla prassi di riferimento dell’Uni non siano in grado di cogliere fino in fondo la situazione. Per questo abbiamo dato vita ad un gruppo di lavoro in cui le esperte stanno mettendo a punto delle modifiche da proporre al Governo.
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