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La pubblicazione della Sentenza della Corte Costituzionale n.143 del 3 luglio 2024 offre alcuni importanti spunti di riflessione sul tema del binarismo di genere.
Un’attenta lettura della pronuncia, infatti, permette di andare al di là della decisione di inammissibilità per cogliere degli importanti elementi di novità nel ragionamento proposto.
La Corte è stata adita il 12 gennaio 2024 dal Tribunale di Bolzano che richiedeva la pronuncia di incostituzionalità relativamente a due articoli di legge, l’art. 1 della legge 164/82 sulla rettifica anagrafica di sesso e l’art. 31, 4° comma, del d.lgs. 150/2011: nel primo caso si chiedeva la pronuncia di incostituzionalità per il fatto che si prevedesse la rettifica verso il genere maschile e femminile e non si prevedesse un genere “altro”; nel secondo si riteneva invece contraria ai principi costituzionali la previsione di una sentenza autorizzativa di eventuali interventi di riattribuzione chirurgica del sesso.
Relativamente al primo punto la Corte ha ritenuto di non poter decidere sul merito, rimandando alla competenza del legislatore: è però altrettanto vero che la Corte, dopo aver citato i casi di ordinamenti europei che hanno recepito l’abbandono del binarismo, sottolinea come “la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)”. E non appare casuale che in un passaggio successivo citi “la pratica delle “carriere alias”, tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito”.
Nel rimettere dunque al legislatore la decisione sull’introduzione di un genere “altro” rispetto al “maschile “ e “femminile”, la Corte prende in carico la tematica e le conferisce piena dignità anche attraverso il richiamo di pratiche amministrative che in questo momento svolgono un’attività suppletiva rispetto alla mancanza di una legge.
Non solo: è sempre la Corte a sottolineare che, rispetto al genere vi è “una progressiva focalizzazione sull’autodeterminazione individuale” e non più sui caratteri sessuali e che le norme attualmente vigenti (quelle discendenti dalla legge 164/82 sulla rettifica anagrafica) non sono “prive di tratti paternalistici, rispetto a persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi”.
Relativamente al secondo punto in discussione la Corte si è pronunciata per l’incostituzionalità della previsione contenuta nel 4° comma dell’art. 31 del D. Lgs. 150/2011, “nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso”. Bisogna infatti ricordare che la riattribuzione chirurgica, prevista inizialmente dalla legge 164/82, non è più necessaria ai fini della rettifica anagrafica e sarebbe quindi insensato continuare a prevedere l’autorizzazione del Tribunale anche quando sia già intervenuta la rettifica anagrafica: non a caso i Tribunali si stanno orientando nel senso di autorizzare eventuali interventi chirurgici con la medesima sentenza con la quale concedono la rettifica anagrafica.
La Sentenza rafforza ancora una volta la posizione della nostra Organizzazione che – in ossequio ai principi di autodeterminazione richiamati – consente l’iscrizione con il nome di elezione e il genere percepito, prevedendo espressamente anche la possibilità di un genere non binario.