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Il contenimento dovuto alla pandemia da COVID-19 dell’ultimo anno ha fatto registrare un’impennata dei dati di coloro che hanno svolto durante il lockdown almeno un'attività online, che si tratti di smartworking, acquisti online o comunicazione a distanza. Attività che hanno riguardato per l’esattezza 11,8 milioni di famiglie (il 48,6%), 8,2 milioni delle quali si approcciavano a queste azioni per la prima volta. (Dati contenuti nell’ultimo rapporto Auditel Censis).
Un numero in crescita, ma profondamente disomogeneo, che mostra tutta la fragilità di un sistema in cui deficit e disuguaglianze già esistenti rischiano di acutizzarsi sempre di più nei prossimi anni. Basti pensare, come sottolineato a luglio dall’Agcom che «il 12,7% degli studenti italiani non ha usufruito della didattica a distanza, dati inaccettabili per una democrazia evoluta».
Fatta questa premessa, risulta evidente quanto sia urgente e importante investire nella digitalizzazione, e quanto le infrastrutture digitali possano e debbano rappresentare il volano per il rilancio del Paese, in tutti i settori, ben sapendo che già prima della pandemia, sul tema del ritardo digitale, l’Italia si collocava al 25° posto su 28 nella classifica europea (Indice DESI dell’Ue).
«L'Italia - si legge nel Rapporto UE - è molto avanti sul fronte del 5G (terza in Europa, ndr.), ma è in ritardo in termini di diffusione delle reti ad altissima capacità (Vhcn). I risultati conseguiti dal Paese sono limitati per quanto riguarda le competenze digitali e la digitalizzazione delle imprese, così come resta modesto l'uso dei servizi pubblici digitali».
Non siamo messi molto meglio sul fronte della connettività dove, nella stessa classifica, ci posizioniamo al 17° posto.
Qualcosa migliora solo con la voce "Copertura della banda larga veloce (NGA)", visto l’Italia copre l’89% delle famiglie contro una media europea pari all’86%, conquistando così la 14esima posizione.
I problemi veri sorgono però quando si passa alla banda larga ultraveloce, quella cioè in grado di garantire velocità superiori ai 100 Megabit al secondo in download (rispetto ai 30 Mbps della banda ultralarga o ai 2 Mbps della "banda larga"). A fronte di una media europea pari al 44% di connessioni sopra i 100 Mbps (e fino a 1 Giga), in Italia la copertura riguarda appena il 30% degli utenti.
Questo rappresenta un grande problema perché il futuro digitale del Paese non può prescindere da connessioni con prestazioni di questo livello.
A tal proposito, val la pena ricordare che l’Europa ha posto alcuni obiettivi precisi che, per il 2025, prevedono che venga garantita la connettività di almeno 1 Gbps per scuole, biblioteche e uffici pubblici; di almeno 100 Mbps, aumentabile a Gigabit, per tutte le famiglie europee e la copertura 5G ininterrotta in tutte le aree urbane e lungo i principali assi di trasporto.
La bassa velocità di connessione che le attuali reti assicurano agli utenti, pubblici e privati, rappresentano dunque una delle principali cause dei ritardi nei processi di digitalizzazione del nostro Paese. Questa è la ragione per la quale è necessario realizzare il più rapidamente possibile, reti di nuova generazione ad alta capacità (“Very High Capacity Network”).
In questo scenario, la firma del memorandum fra Tim e CDP per la costituzione di una società (AccessCo) che dovrà costruire la rete in fibra nazionale unica rappresenta una fatto importante nella politica infrastrutturale del Paese.
Il progetto prevede che la società della Rete unica sia controllata congiuntamente da parte di Cdp Equity e Tim (che deterrà almeno il 50,1% di AccessCo e attraverso un meccanismo di governance condivisa con Cdp Equity), e sia aperta al co-investimento di altri operatori.
Una novità il cui profilo deve essere ancora definito, ricca di variabili che possono determinare il successo o meno dell’operazione e decretare il rilancio industriale di Tim ed il consolidarsi di un “campione nazionale” in un settore dove la concorrenza internazionale è fortissima e c’è oggettivamente il bisogno di un soggetto forte con una partecipazione “pubblica” significativa. Un soggetto che non si limiti a rivendere connettività al mercato (il modello “wholesale only”) ma che, in un contesto regolatorio che garantisca il libero mercato, sappia indirizzare le politiche nazionali in tema di digitalizzazione.
Allo stato attuale, il percorso tracciato sembrerebbe portare nella direzione auspicata, ovvero quella in cui si realizzi una società delle reti in cui il sistema pubblico, attraverso Tim, esprima la maggioranza.
Il dibattito tuttavia deve ancora avanzare, ma una cosa è certa, la realizzazione della rete unica non è più rinviabile.
Il Covid-19 ci ha consegnato plasticamente l’immagine di quanto sia urgente intervenire per garantire al sistema Paese una rete di comunicazioni efficiente, sicura e affidabile, e lo ha fatto dimostrando quanto si cresciuto in maniera esponenziale l’utilizzo di strumenti di didattica a distanza, di smart working, di e-commerce e di tutte quelle forme di comunicazione/interazione che durante il lockdown hanno letteralmente tenuto insieme persone e attività.
Questa è la ragione per la quale nell’ambito del dibattito in corso, riguardante le risorse in arrivo dal Recovery Fund, (gran parte delle quali sono riservate all'obiettivo della digitalizzazione, dell'innovazione e della competitività del sistema produttivo) è necessario sottolineare che queste devono essere correttamente impegnate per realizzare una rete unica, da mettere a disposizione delle generazioni future, concentrando l’attenzione sulle caratteristiche tecniche, sulla “larghezza di banda” e la conseguente velocità di connessione che sarà in grado di garantire al Paese, considerando al tempo stesso però gli effetti che il passaggio alla quinta generazione (5G) introdurranno sulla struttura stessa delle reti e del mercato.
La caratteristica profondamente innovativa del 5G modifica infatti radicalmente lo scenario conosciuto fino ad oggi, caratterizzato da servizi che non avevano bisogno di oggetti fisici per funzionare in modo efficiente. Posta elettronica, ricerche sul web, streaming video, sono tutte attività immateriali.
Con il 5G tutto questo cambia, dando vita all’internet delle cose. Una tecnologia in cui ad incidere non è solo la bassa latenza o l’aumento della larghezza della banda. Determinante diventa infatti il diffuso utilizzo delle tecnologie wireless per connettere “oggetti”.
Nell’ecosistema 5G, lo sviluppo sinergico di reti e servizi sarà la regola, con la realizzazione di reti costruite “attorno” ai servizi del futuro. Immaginiamo gli utilizzi lungo le strade, con sensori in grado di comunicare con i computer di bordo dei veicoli, rendendo possibile ad esempio la guida assistita; o in medicina, con sensori e apparati medici che comunicano a distanza; o ancora nelle reti di distribuzione dei contenuti che, ottimizzando il flusso in “streaming”, possono rendere possibile una visione senza interruzioni, ad alta risoluzione.
Il 5G, veicolando al meglio i contenuti e connettendo aree e servizi, rappresenta dunque lo strumento per aprire il Paese a nuove frontiere della comunicazione, in tutti i settori, dalle piccole aziende alle grandi industrie, passando per scuole, sanità, pubblica amministrazione, fino ad arrivare agli utilizzi domestici (smart home).
Se è vero dunque, come è vero, che investire nella digitalizzazione significa investire nelle infrastrutture digitali, è dentro questo schema che va ricondotta la sintesi tra le diverse reti, finora distinte, considerando il 5G al pari di una autostrada, in grado di far “correre” il Paese.
Naturalmente, dotare il Paese di una rete unica è solo il primo passo. L’obiettivo è e rimane quello di rafforzare il sistema di telecomunicazioni europeo e di trovare sinergie affinché l’Europa possa concorrere a pieno titolo ad affrontare le sfide del 5G, liberandosi dalla morsa di Cina e Usa. In questa direzione diventa importante che in Italia si affermi quindi un “campione nazionale” che sappia dialogare da una posizione di “parità” con gli altri soggetti industriali europei.
Per fare questo bisognerebbe pensare alla possibilità di creare le condizioni per una progressiva integrazione europea delle reti di telecomunicazione, sapendo che un ragionamento in tal senso si rende ancora più urgente in ragione di uno scenario che vede già muovere i grandi broadcasters (Sky ne è un esempio) in direzione della rete, nel tentativo di conquistare anche in questo campo
spazi nuovi e fette di mercato. Con il completamento del processo di digitalizzazione si realizzerà anche in Italia quella “convergenza” sempre più netta fra il mondo della “rete” e quello dei contenuti. Un processo inevitabile che possiamo decidere se governare o meno, di certo non è in discussione che avvenga.
Il Recovery Fund è la cornice dentro la quale dobbiamo provare a costruire questi percorsi, sapendo che si tratta di un’occasione senza precedenti, in cui vengono messe a disposizione del sistema Paese risorse in grado di consentirci di superare il “digital divide” sia da un punto di vista tecnologico che di adeguamento delle competenze.